la serata
Walter Veltroni tra libri e cinema a Gorizia, «la storia è mia ossessione»
Ieri sera il regista e scrittore, in dialogo con De Francisco, ospite al Kinemax con Le giornate della luce in collaborazione con il Premio Amidei.
“Ogni ombra è figlia della luce”, scriveva Stefan Zweig per comprendere “tenebra e chiarità, guerra e pace, ascesa e decadenza”. Ed è nell’ambito della IX edizione del festival “Le giornate della luce”, ambientato per buona parte a Spilimbergo, che l’8 giugno si è svolto l’incontro con Walter Veltroni presso il Kinemax di Gorizia. In collaborazione con il Premio Sergio Amidei giunto alla sua 42a edizione, il quale si svolgerà dal 20 al 26 luglio, la serata ha avuto inizio con la presentazione del romanzo “Buonvino tra amore e morte”, saga che in questo quarto capitolo vede il commissario sconvolto per il tentato omicidio della moglie.
A seguire è stato poi proiettato “Quando”, trasposizione cinematografica del romanzo omonimo. A moderare l’incontro, la giornalista Luana De Francisco, secondo cui il messaggio che traspare dal film è una certa “idea di speranza coniugata alla fiducia, conoscenza, consapevolezza delle cose”. Lo spettatore dovrebbe poter rientrare a casa “con una sensazione di recupero di certi valori, anche se il libro e il film partono da episodi drammatici”. Politico di lungo corso, ma anche giornalista, scrittore e persino regista, la figura di Veltroni è quella di un intellettuale che osserva il mondo “in tutte le sue vibrazioni” alla ricerca della felicità.
Perché come ammette il protagonista Giovanni durante il suo esame di Stato, “non è impossibile essere felici. Basta sentirsi un’isola, amare in quel poco tempo che abbiamo a disposizione e dargli un senso ogni minuto”. Il connubio fra letteratura e cinema sta nello stesso nome “Giovanni”, condiviso dal protagonista di “Quando” e dal commissario. Entrambi poi hanno il medesimo carattere gentile: nel film il personaggio cercherà di entrare in punta di piedi nella vita della figlia sino ad allora mai conosciuta, facendosi chiamare “papà” solo per una volta. Mentre Bonvino è un personaggio “curioso, intelligente, divertente”, capace di estrarre il talento dai suoi collaboratori e con grande umorismo.
Una figura che fonde in sé malinconia deduzione e, da ultimo, gentilezza, la quale secondo Veltroni “è uno dei valori più rivoluzionari”. Il libro trae spunto da una storia vera, risalente al 31 maggio 1944, quando un borsaro nero venne fucilato in piazza di Siena a Roma. La memoria, ammette, “è un’altra mia ossessione”, oltre a quella per le parole: “Ho fatto un documentario con Sami Modiano, sopravvissuto alla Shoah, uno su De André. Ho scritto ‘Ciao’” per ricordare il padre perduto ad appena un anno a causa di una leucemia fulminante. “Mi sono immaginato di tornare a casa – io abito nella stessa casa in cui è morto – e di ritrovare un ragazzo con la brillantina sui capelli".
"Mio padre oggi avrebbe potuto essere mio figlio. È servita, questa scrittura, è stato molto duro, ma molto bello”, in quanto si è trattato di “scrittura come ispezione di se stessi. Io credo che ciascuno di noi abbia il dovere di scrivere”. Raccontando poi come a Pieve di Santo Stefano sia presente un piccolo museo dei diari, scritti “delle persone più semplici, dal farmacista al medico, e per chi scrive libri non c’è fonte più prolifica”. È possibile leggere persino il diario di una contadina che aveva scritto “su un lenzuolo”, e ha aggiunto, rivolto al pubblico in sala.
“Invito tutti a scrivere, perché passiamo con la velocità della luce” e abbiamo il dovere di lasciare traccia del nostro passaggio terreno, il dovere di “lasciare delle parole”. La memoria, per Veltroni, è “il recupero della tridimensionalità del tempo”. Finché restiamo “schiacciati dal presente” non riusciremo mai a osservare la realtà come una “fisarmonica aperta, con passato presente e futuro”. Commentando poi il film: “Vedrete Neri Marcorè che deve riscoprire tutto quello che è accaduto”, facendolo però “con lo sguardo innocente del giovane che non è stritolato dalla frenesia dei giorni nostri”, ha aggiunto De Francisco.
Sarà quest’aura di dolcezza contemplativa a consentirgli di superare la separazione fra il sé del passato e quello presente. In fondo il luogo del finale, il bagno nel fiume che è anche il set di “Non ci resta che piangere”, dove Leonardo da Vinci ha sperimentato le sue macchine, rappresenta una rinascita a nuova vita, un nuovo sentire. “Io che non ho nostalgia del passato, della mafia, della P2, delle stragi di Falcone e Borsellino, di una cosa ho però nostalgia”, confessa l’autore: “Del sentimento, delle intenzioni che univano milioni di esseri umani. Ci si sentiva fratelli, compagni”, nell’accezione latina del termine “cum panis”, come dirà anche Giovanni nel film.
E purtroppo “questa dimensione di motivazione della propria esistenza ci è stata sottratta”, siamo abbandonati nelle nostre solitudini con le nostre povertà lessicali. “Viviamo in un tempo in cui le parole vengono sradicate, uniformate, plasmate, strappate. Siamo alle porte di una gigantesca rivoluzione, quella dell’intelligenza artificiale”. Viviamo “tutto velocemente e in superficie. Viene bombardata una diga” e scriviamo sui social, “condensando il nostro sdegno in un tweet”. Eppure, nonostante tutto, il nostro mondo muta, si trasforma, evolve. “Mio nonno è stato catturato dai nazisti e torturato in via Tasso, mio padre è morto a 37 anni per una leucemia che oggi potrebbe essere curata".
"Il livello di istruzione degli anni ’40 è incomparabile con quello di oggi, e le donne fino al ’46 non hanno votato. Il mondo noi lo abbiamo spostato tutti insieme”, ma abbiamo bisogno di recuperare “la bellezza di quelle mani che hanno spostato il mondo, mani che oggi sono sul cellulare”, ha proseguito Veltroni, denunciando la “gigantesca solitudine” del mondo moderno. A salvarci sono proprio le parole: “sono come ago e filo, legano una persona all’altra”, ci consentono di innamorarci e riempiono la nostra esistenza, distinguendoci dagli altri esseri viventi.
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