Le vite di chi fuggì nel Kurdistan iracheno, giorni senza date raccontati a èStoria

Le vite di chi fuggì nel Kurdistan iracheno, giorni senza date raccontati a èStoria

il documentario

Le vite di chi fuggì nel Kurdistan iracheno, giorni senza date raccontati a èStoria

Di Eliana Mogorovich • Pubblicato il 25 Mag 2024
Copertina per Le vite di chi fuggì nel Kurdistan iracheno, giorni senza date raccontati a èStoria

Realizzato per la Rai, il documentario mostrato a Gorizia ha avuto come obiettivo iniziale il racconto di ciò che stava succedendo nel Kurdistan iracheno nel 2015.

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Giorni eterni e polverosi, sospesi fra un doloroso passato a cui si tende a non tornare e un futuro condito di speranza ma che non si sa quando potrà diventare presente. È questa la realtà dei campi profughi, luoghi che compaiono con la precarietà dettata dall’emergenza e a volte finiscono per trasformarsi in sovraffollati quartieri cittadini. Inserito negli appuntamenti di èStoria Giovani, l’incontro “Giorni senza date: quando passato e futuro sembrano irraggiungibili” di ieri ha voluto sottolineare una particolare declinazione del tema generale del festival di Gorizia, “Date”.

Promosso da Sconfinare, il giornale degli Studenti di Scienze internazionali e diplomatiche dell'Università di Trieste, l’evento - presso il Trgovski dom - ha inteso proporre delle riflessioni sui campi profughi partendo dal documentario “Dust. La seconda vita”, girato nel 2015 da Stefano Rogliatti e Stefano Tallia. Quest’ultimo è stato protagonista della conversazione condotta da Marco Bertolini, direttore di Sconfinare, ed Emma Bernardi, redattrice dello stesso periodico.

Realizzato per la rete nazionale, il documentario (facilmente reperibile su Youtube) ha avuto come obiettivo iniziale il racconto di ciò che stava succedendo nel Kurdistan iracheno, dove un milione di persone aveva volto le spalle a Iraq e Siria andando di fatto a raddoppiare la popolazione dei territori a nord di Douk. «Mi ero imbattuto in un servizio sugli operatori di Medici senza frontiere, un lavoro molto accurato in cui si diceva che stavano prestando il loro servizio soprattutto per riparare i danni psicologici innescati dalla situazione» spiega Tallia, giornalista Rai e presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte.

«Accanto a questo - approfondisce - è subito emersa la volontà di smantellare i numerosi luoghi comuni che si innescano non appena si sente parlare di profughi, che qui in Italia rappresentano un flusso continuo ma certo non un’invasione». A cercare di ridimensionare la problematicità della situazione, l’accoglienza subito manifestata da tutte le comunità del luogo, tanto da indurre l’inviato ad aggiungere un’ulteriore motivazione al suo lavoro: quella di far cadere l’idea che si trattasse “semplicemente” di una guerra di religione, semplificazione estrema di ciò che stava accadendo in un territorio dove si pensava che la colpa di tutto fosse l’Isis, a base sunnita, e che quindi chi scappava fossero solo gli sciiti. Ma non era così: a fuggire furono persone appartenenti a tutte le comunità religiose.

E non sono questi i problemi principali che si respirano nei campi. Il problema fondamentale è il tempo, con la totale paralisi dei primi momenti, scanditi unicamente dal desiderio che finisca la giornata. Mentre la situazione si trasforma da emergenziale (tende tirate su in fretta e la priorità della distribuzione di cibo) in stanziale, le giornate cominciano a essere strutturate grazie agli operatori che propongono attività ricreative per bambini e giovani mentre gli adulti cercano il modo di trovare un lavoro fuori dal campo stesso, con le difficoltà poste dall’assenza di documenti.

Poi, racconta Tallia, si può verificare un ulteriore step nel momento in cui la tendopoli diventa un nuovo quartiere della città accanto a cui è sorta: un esempio per tutti è il campo sorto a ridosso del muro di Betlemme nel 1948. Ma è anche quanto Tallia prevede che succederà a Douk, dove la situazione geopolitica è mutata, la vicina Mosul non è più occupata ma poche sono le persone che vogliono tornarvi per il “dolore del ricordo” o perché effettivamente fiduciose in un futuro migliore lontano da quella casa che hanno abbandonato fra le lacrime.

Foto Tibaldi

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