T di Thesaurus Ecclesiae
Un tesoro che ha segnato la storia, Gorizia e le sue ricchezze contese
Le prime testimonianze risalgono al 568, negli scritti di Paolo Diacono. Viaggio nella storia e scontri tra la città e Udine.
l termine thesaurus (o più correttamente thesaurus ecclesiae) trova riferimenti fin dalle più antiche fonti aquileiesi, quando Paolo Diacono, nel 568, parlava delle drammatiche traversie che costrinsero la Chiesa di Aquileia a fuggire a Grado e a portare con sè il suo tesoro: “Qui, Langobardorum barbariem metuens, ex Aquileia ad Gradus insulam confugiit secumque omnem suae thesaurum ecclesiae deportavit”.
Le prime testimonianze del tesoro della Chiesa aquilieise (tutti del VI secolo) si trovano proprio a Grado e sono la celebre capsella ellittica in argento destinata al culto dei martiri aquileiesi Canzio, Canziano e Canzianilla, portata probabilmente dallo stesso Paolo Diacono in fuga, la cassetta-reliquiario con la figura di Maria Regina donata intorno al 630 dall’imperatore Eraclio (dello stesso è anche la cattedra in alabastro oggi presente nel tesoro di San Marco a Venezia) e una capsella in avorio che fino agli anni Venti del Novecento si trovava a Moggio Udinese e che oggi è custodita negli Stati Uniti.
Nella chiesa di Aquileia il tesoro si identificava come raccolta di oggetti di culto e per il culto, a cui era destinato un sanctuarium apposito nella stessa Basilica Patriarcale e un mausuleum, durante il periodo gradese, nella basilica di Sant’Eufemia. Nella cripta si custodivano e si veneravano le reliquie (protette da una grande cancellata costruita nel 1524) mentre gli arredi liturgici furono collocati in un conditorium a lato del presbiterio. Solo nel XVI secolo si vennero rivalutati, dando un importante rilievo ad alcune suppellettili liturgiche che si credeva contenessero reliquie: si riscoprì così il Pastorale di Sant’Ermacora detto anche “di San Pietro”, un esile bastone in legno di faggio dell’XI secolo, legato in argento dorato e lievemente inciso in bulino, e la cosiddetta Croce dei Principi, del XIV secolo, detta anche Magna Crux, inventariata nel 1358 – 1378 come “una magna crux cum crucifixo argenteo deaurata et certis lapidibus contrafactis que in solemnitatibus in altari reponitur”.
Bisogna sottolineare, però, che dal IX secolo non si può parlare di tesoro aquiliese senza tenere conto che molta parte del tesoro del Duomo di Cividale è a tutti gli effetti parte integrante del tesoro del patriarcato, anche perché i patriarchi alternavano la sede tra Aquileia e Cividale. Il tesoro spirituale delle reliquie, accumulato nella Basilica di Aquileia, si era rivelato assolutamente rilevante ma a causa delle nove traslazioni o trasferimenti, avvenute tra il 452 e il 1753, non mancarono delle indebite appropriazioni; un esempio è il caso della cattedra eburnea presente a Grado già prima del IX secolo le cui quindici formelle sono state disperse in ogni dove durante l’incuria settecentesca. Ciò lo rilevò il notaio goriziano Antonio Gostisse che fu cronista diretto di questi avvenimenti proprio negli anni in cui si andò a dividere definitivamente il tesoro tra Gorizia e Udine.
Fino alla metà del Settecento i “due tesori”, quello delle reliquie e quello degli argenti liturgici, erano stati ben distinti, ma la situazione precipitò a partire dal 1750, anno i cui si ventilò la possibilità di erigere due nuove diocesi sopprimendo l’ormai decadente patriarcato.
Per comprendere chiaramente lo scontro che di lì a poco sarebbe nato tra le due istituzioni ecclesiastiche basti citare il famoso caso del cosiddetto pastorale di Ermacora o San Pietro che Udine avrebbe voluto: i canonici fecero ricorso al consultore ecclesiastico presso l’ambasciata veneta Giuseppe Bini che aveva fama di grande erudizione. Papa Benedetto XIV scrive al Bini “mi piace, Arciprete, la vostra erudizione; ed io vi prometto di esaudire il desiderio dei canonici di Aquileia e vostro quando mi saprete dire in qual bosco abbia S. Pietro tagliato quel bastone”. “Beatissimo Padre – rispose il Bini – mi domanda cosa superiore alla mia erudizione”. Ed il papa: “Poiché non sapete dirmelo, il pastorale passerà a Gorizia”. E alla città passò (Questa ricostruzione è merito di Giuseppe Vale che poté consultare gli appunti del Bini nel 1932).
Con l’imminente soppressione del patriarcato il problema del tesoro divenne impellente e la brama dell’eredità si concentrò sulle reliquie accumulate, conservate e venerate nella gloriosa basilica. Le motivazioni politiche e i risentimenti tra le due nuove entità prevalsero e ancora oggi spesso prevalgono: Venezia attraverso il patriarcato svolgeva a tutti gli effetti una forma di ingerenza, se non di vero e proprio imperio, nelle terre austro-ungariche. La serenissima con la nuova arcidiocesi di Udine resisteva alla spartizione del tesoro per ragioni di prestigio e di principio ma ciò aveva implicazioni soprattutto d’ordine ecclesiastico, politico e culturale; la contesa, in quei quattro anni tra il 1752 e il 1756, non riguardò tanto i pregevoli manufatti liturgici quanto le reliquie e i relativi reliquiari che, una volta divisi, furono posti sia a Gorizia che a Udine nei rispettivi conditoria accanto a quelli della propria tradizione agiografica e culturale.
Il problema politico non era di secondo piano; infatti il nuovo arcivescovo di Udine (all’epoca il cardinale Delfino) si configurava a tutti gli effetti come un prolungamento in terra veneta dell’autorità patriarcale e il Principe Arcivescovo di Gorizia (all’epoca dei fatti il conte Carlo Michele d’Attems) colmava un grande vuoto spirituale che le terre poste nell’area imperiale avevano sofferto non avendo visto un patriarca dalla metà del XV secolo. Benedetto XIV e Maria Teresa intesero la Principesca Arcidiocesi di Gorizia sia come un luogo di sicura influenza imperiale, salda nelle mani del fedele e preparato Carlo Michele d’Attems, sia come un’esigenza di ordine pastorale e dottrinale in terre dove l’ormai lontano patriarca si era dimostrato da troppi secoli silenzioso e inefficace.
Già nel 1750 le notizie sulla volontà papale e imperiale avevano acceso vivaci dibattiti tra i canonici aquileiesi (in maggioranza veneti) che si riunivano a Udine dove avevano preventivamente trasferito tutti gli archivi, l’imponente materiale librario e anche una cospicua parte del tesoro. La questione divenne chiara quando Attems, ancora Vicario apostolico, iniziò l’abbozzo di un piano per l’erezione della nuova Arcidiocesi, dove si legge “nulla si è parlato, né disposto delle Insigne Reliquie, e varie suppellettili esistenti nell’antica fu Chiesa Patriarcale di Aquileja. Sebbene sembri necessaria la traslazione delle medesime tutte, a riserva di qualcuna alle due nuove Chiese Arcivescovili di Gorizia e Udine, dove meglio certamente e con maggior proprietà saranno conservate, riservandosi la Santità Sua di provvedersi dopo che si saranno erette ambedue le Chiese Arcivescovili”.
A Gorizia l’erezione della nuova Arcidiocesi provocò grande euforia in tutta la cittadinanza; non fu così a Udine e ciò si esplicitò nell’agosto del 1750 quando i canonici veneti espressero il voto contrario alla nomina di Attems a Vicario Apostolico di Gorizia, non senza le proteste dei canonici austriaci Cappello, Lanthieri ed Edling. A questa protesta il vicario imperiale Felice Romani, nel novembre dello stesso anno, denunciò l’avvenuta sottrazione delle chiavi della basilica di Aquileia da parte dei canonici veneti come atto di malcontento per la nomina a Vicario di Attems. Il Cardinale Delfino si disse più volte amareggiato, anche a nome della Serenissima, per le pretese imperiali e la decisione papale, ed espresse il suo malcontento in diverse omelie di quello stesso anno.
A questo punto si può far iniziare il secondo filone del tesoro della Diocesi, infatti, mentre Udine aveva già un corredo liturgico fornito e di tutto rispetto, ciò non si poteva dire di Gorizia che si ritrovava solamente con i pochi arredi aquileiesi trasportati dai canonici goriziani. L’imperatrice Maria Teresa fornì il corredo a Carlo Michele d’Attems e ciò fu più volte sottolineato sia dal Guelmi, già nel ‘700, che dallo stesso Arcivescovo in alcune documentazioni presenti nell’archivio Attems – De Grazia. Il 20 novembre del 1751 giunsero a Gorizia i doni imperiali che consistevano in un ostensorio d’argento dorato, un crocefisso d’argento, un pastorale d’argento in parte dorato, sei candelieri d’argento, due ampolle d’argento e piattello tutto dorato, il cerimoniale romano, due messali, cinque paramenti di colori diversi con i piviali, le dalmatiche e le mitrie coordinate (molte vesti pontificali furono realizzate con i tessuti riutilizzati dagli abiti della stessa imperatrice), a ciò vanno aggiunti, nel 1753, l’anello e la croce pettorale che contano oltre duecento diamanti e numerose ametiste.
Anche gli Stati Provinciali non fecero mancare il loro apporto infatti, dopo la consacrazione di Attems e la presa di possesso del palazzo vescovile lasciato in eredità dal barone Agostino Codelli, fecero dono di un Pastorale d’argento sbalzato che è passato alla storia come il “Pastorale degli Stati Provinciali”. Nel dicembre del 1751, non senza le proteste di Udine, Attems inviò i canonici Cappello e Lantieri ad Aquileia affinché trasferissero a Gorizia un numero adeguato di libri liturgici, musicali e di suppellettili per le sacre funzioni.
Nella cattedrale goriziana e nel suo tesoro vi sono quasi tutti gli argenti tolti ad Aquileia nel 1751, in particolare si segnala una lampada in argento seicentesca, una croce processionale d’argento risalente al primo Seicento, una croce processionale con lo stemma del patriarca Francesco Barbaro del 1570, un calice del 1580, un bastone da cerimoniale con statuetta di San Pietro e due candelieri del 1605. La certezza sull’effettiva consistenza di questi preziosissimi suppellettili si ha, come sottolinea Sergio Tavano, anche grazie all’importante elenco realizzato da mons. Bartolomeo Bertotti negli anni Novanta del XX secolo (certamente il furto del 15 dicembre 1956, nella sacrestia della Cattedrale, ha prodotto dei danni notevoli di carattere eminentemente vandalico sottraendo degli oggetti di grande rilevanza soprattutto storica, come il busto con il cranio di Sant’Ermacora o il riccio del Pastorale detto “di Popone” del XIII secolo).
L’intreccio, le complicazioni storiche e le dispute non si conclusero alla fine di quel 1751 ma continuarono fino al settembre del 1753 quando Carlo Michele d’Attems decise la definitiva traslazione delle reliquie da Aquileia a Gorizia (la narrazione è presente anche nei libri delle cronache della chiesa Parrocchiale di Gradisca). La storia di quel viaggio ci narra che “di parrocchia in Parrocchia, cioè da confine in confine delle Parrocchie, per cui si passava, venivano processionalmente accompagnati i Sacri Depositi a suono delle campane e con canti divoti di popolo”. Per le genti di Gorizia fu una seconda grande festa, dopo la nomina di Attems ad Arcivescovo. A Gradisca i tanti fedeli vennero benedetti “col crocifisso detto di Popone, involto e sigillato come era” e a Gorizia tutte le finestre delle abitazioni erano illuminate, dal ponte di Peuma a Piazzutta. Ma per molti, a tutti gli effetti, quella processione di “Sante Reliquie” non era altro che il funerale del grande, glorioso e millenario patriarcato.
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