la serata
La storia di Gorizia riletta da Lucio Fabi, «quello strappo con la comunità slovena»
Presentato ieri sera il nuovo libro dello storico, dedicato alla storia della città. Kuzmin: «Difficoltà a rileggere la storia per come si è svolta».
“Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro //Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto //Ma nel cuore/nessuna croce manca//È il mio cuore/il paese più straziato”, scrive Ungaretti, unendo “il dolore di tutte le tragedie della guerra” con “il ricordo di tutti i sofferenti dentro di lui”. Una tragedia in cui il Carso e San Martino assurgono a “simbolo delle distruzioni della guerra” con tutta la loro “immensità tragica”, ha commentato in disparte per noi Lucio Fabi, storico e consulente museale.
Si è svolta così ieri, venerdì 9 giugno, nella gremita galleria Prologo di via Ascoli, l’incontro con l’autore, presente per commentare il saggio “Gorizia. Storia di una città”. Un successo di pubblico che ha assistito alla presentazione di un testo realizzato nell’ambito della rassegna d’arte contemporanea “Pasolini chi?” curata da Eva Comuzzi e Orietta Masin, “revisione storica di 30 anni fa”, in vista di Go!2025. “Un libro necessario”, ha commentato Fabi, “un pilastro affinché il confine davvero non ci sia più”, che ha subito modifiche rispetto all’edizione del ’91, in quanto era “un testo accademico, concettuoso".
"Questo nuovo volume è stato realizzato per una lettura informativa”, eliminando le parti accademiche, “ponendo un grande accento sull’Ottocento”, da cui scaturisce “lo scontro tra partito liberal nazionalista e quello socialista”. Un clima in cui avverrà la trasformazione della città “da multietnica e plurilinguistica a italiana”, con tutti i problemi che ne conseguono, a partire dalla “perdita d’identità della cultura slovena”. A dialogare con l’autore lo studioso Diego Kuzmin.
Architetto, giornalista, pubblicista; progettista della lapide marmorea dei Tolminotti “fatta in pietra carsica”, nonché autore di diverse pubblicazioni, fra cui “Antonio Lasciac tra Oriente e Occidente”, Kuzmin ha osservato come “Fabi fa parte degli storici revisionisti”, sottolineando che “i diari delle Orsoline sono stati spezzettati” per mostrare artificiosamente un’immagine lieta, mentre Fabi è in grado di “raccontare la storia per trarre una considerazione obiettiva”. Una realtà emblematica specchio di quella attuale, dove ritroviamo “da un lato un nazionalismo di maniera, dall’altro un ripetere ‘siamo tutti amici’.
Il sindaco di Nova Gorica ha detto ‘ricordiamo la storia, ma andiamo avanti’”, ha aggiunto Fabi, augurandosi che il 2025 favorisca davvero gli scambi fra culture. Dal canto suo, Kuzmin ha ricordato come “dopo l’indipendenza gli sloveni non guardano più la tv italiana, e non parlano la nostra lingua. Quando il sindaco è venuto alla redazione Isonzo-Soča è stato invitato a cambiare il nome della città e togliere il ‘Nova’. Un altro problema è che fino alla metà dell’Ottocento i matrimoni misti erano numerosi e le diverse lingue si uniformavano nella parlata goriziana, come nella nota ‘trapola de carta’ dei fratelli Rusjan.
I Rusjan si rapportavano alla città usando questa lingua franca. Successivamente, con l’avvento del fascismo i gruppi si sono divisi e contrapposti. È solo da poco tempo che si va al Kulturni dom o al Lojze Bratuž”, ha argomentato Kuzmin. Una città, quella di Gorizia, che nel 1860 contava 10mila abitanti, per triplicarsi a fine secolo e rimanere però in identico numero ai giorni nostri. La difficoltà principale dei due popoli sta nella scarsa obiettività nei confronti della storia: “Italiani e sloveni hanno difficoltà a rileggere la storia per come si è svolta realmente e non per come è stata strumentalizzata”.
Un’incapacità di comprensione reciproca che ha visto naufragare il progetto del museo transfrontaliero, “una vecchia idea che non si fa”, è stato detto citando la direttrice artistica Neda Rusjan. A seguire, è stato proiettato il documentario di Giampaolo Penco “Storia di un confine e di tante identità”. Il film “si analizza da un punto di vista antropologico”, delineando un confine “fatto di microstorie che si svolgono dagli anni della prima guerra mondiale fino alla caduta del confine”, ha spiegato il regista. Un documentario con un percorso travagliato, trasmesso ben 10 anni dopo la sua conclusione. A dimostrare che l’argomento trattato “è ancora caldo, difficile da digerire”, in quanto “certe divisioni esistono ancora”.
Persino nella città di Trieste “è difficile considerare la comunità slovena come triestina”. Le sequenze si aprono affrontando la ripida scarpata del monte Nanos, dall’alto del quale “si percepisce che quello che finisce è qualcos’altro che inizia”. La narrazione si dipana mostrando giovani appassionati nelle trincee del Carso, che studiano i piani d’attacco come hanno fatto i propri nonni, rileggendo la storia attraverso la tecnica della living history.
“In queste terre il popolo viene squartato” scriveva Srečko Kosovel nei suoi versi. Per il ventenne il sentimento di emarginazione è preponderante, rimanendo imprigionato nei meccanismi di estraniamento come il coetaneo Cernigoj. Sarà Scipio Slataper a superare l’impasse. Autore de “Il mio Carso”, considerava quelle terre aspre come “un mondo arcaico, duro e puro”. A unire i due poeti è il tram di Opicina. Kosovel scende in città per sfuggire alla campagna, Slataper sale sul Carso per rifugiarsi in una caverna con una finestra aperta sul cielo, per ritrovare l’autenticità.
Scipio è un intellettuale cosmopolita, si sente “fratello di tutte le patrie”. Alle loro storie si avvicendano quelle dei paesi: Livio racconta la propria microstoria di partigiano, a cui si interseca quella di Leopoldina Dorbolò, alla ricerca della verità sulla morte dello zio infoibato. A Padriciano trovano rifugio gli esuli, accolti dentro baracche di legno, ma sarà Santa Croce la comunità più grande, dove ancora oggi gli italiani incontrano difficoltà a integrarsi con la comunità slovena.
Boris Pahor racconta come sia stato “un trauma, diventare cittadino italiano”, perché quella sottile linea bianca tracciata arbitrariamente, insieme al filo spinato, è stata a lungo una lacerazione insanabile. Emblematica, fra i tanti volti e le voci corali, resta “quella bambina che fa l’altalena fra due stati”, incurante delle guerre.
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