LA SERATA
La standing ovation per lo spettacolo di Cuscunà, «Monfalcone modello di convivenza»
Più di duecento persone hanno assistito allo spettacolo all'oratorio San Michele. L’attrice racconta: «Così riporto a casa quello che ho».
Ieri sera, lunedì 2 settembre, il reading teatrale “The Beat of Freedom” di Marta Cuscunà, accompagnata dalle illustrazioni composte in live dal fumettista Fabio Babich è andato in scena nel parco dell’Oratorio San Michele di via Mazzini a Monfalcone. Lo spettacolo è stato un successo, con tanto di standing ovation del pubblico che si è attestato abbondantemente sopra le 200 presenze - capienza massima concessa e raggiunta ben prima dell’inizio dello spettacolo - alle quali si sono aggiunti più di un centinaio di spettatori che hanno assistito alle letture fuori dalle recinzioni dell’area parrocchiale.
La serata era ad ingresso libero. Chi lo ha desiderato, ha lasciato una donazione a favore dell’associazione “Da donna a donna”. Ad aprire lo spettacolo è stata Luisa Vermiglio, attrice, regista, maestra e mentore di Marta Cuscunà. «Questa è casa tua, casa nostra. Non potevo non essere qui oggi» ha affermato Vermiglio in apertura. «Il Rione Centro non fa politica, ma lavora per tutta la città» ha specificato poi il presidente del Rione Centro, Luciano Negri. Affetto e gratitudine sono stati manifestati al parroco don Flavio Zanetti che ha accolto l’iniziativa in oratorio. La serata è stata reliazzata in collaborazione con Monfalcone è Civile. Poco prima di salire sul palco, abbiamo avuto modo di fare qualche domanda all’attrice, partendo proprio dalla sua città, Monfalcone.
Che effetto ti fa ritornare, dopo tanti anni, ad esibirti a Monfalcone, tua città natale?
«È bellissimo. Mi era mancato molto e sicuramente credo sia un modo per restituire tutte le esperienze che ho fatto altrove. Avendo scelto comunque di continuare ad abitare qua, nonostante il mio lavoro mi porti lontano, mi piace l’idea che ci siano delle occasioni in cui riporto a casa quello che ho. Spero di tornare presto anche a teatro».
Quale significato dai all'evento di questa serata?
«Credo sia la dimostrazione che Monfalcone è ancora una città antifascista, per fortuna, che ha voluto e desiderato con tutte le sue forze questa serata ed è riuscita miracolosamente in una settimana a risolvere tutti i problemi che avevamo davanti. Questo è stato possibile grazie all'aiuto e all'attestazione di solidarietà di una comunità che ci ha fatto capire che non eravamo solo noi a ritenere necessaria questa serata, ma che appunto serviva ai nostri cittadini»
«Proprio loro hanno spinto, perché ci sono stati tanti momenti in cui ci siamo detti: “C'è davvero tutto questo caos, questa tensione,questo clima molto spiacevole, sgradevole, ha senso tutto questo?” E ci siamo risposti di sì, perché appunto ci hanno scritto, chiamato tantissime persone, quindi questa serata andava fatta».
Come percepisci, senti e vedi la città oggi rispetto a quando hai cominciato nel tuo percorso nel mondo del teatro?
«Sicuramente all'epoca c'erano delle situazioni che per me sono state fondamentali, che hanno messo dei semi che mi hanno proprio cambiato la vita e il mio punto di vista sul futuro. In primis il corso di teatro che conduceva Luisa Vermiglio, che era gratuito per ragazzi e ragazze adolescenti. Questo era non solo all'interno del percorso scolastico, ma anche un laboratorio pomeridiano, totalmente al di fuori dalle scuole, e aperto a tutti».
«Poi c'era la rassegna di teatro civile contemporanea “Contrazioni” che è stato quello, diciamo che mi ha fatto innamorare e decidere che io volevo fare teatro. Non dimentico il centro di aggregazione giovanile che prevedeva non solo i laboratori di teatro, di fumetto, dove tra l'altro ho conosciuto Fabio Babich, ma anche questa idea che fossero degli spazi aperti alla libera aggregazione. Io lì ho fatto le prime prove di “È Bello vivere liberi”, quindi, quando le sale erano vuote andavo e chiedevo se potevo provare».
«C'era anche la formazione Peer-to-peer, quindi molti corsi che venivano condotti proprio dagli altri ragazzi. In questo contesto, c’era un’idea di grande fiducia nei confronti delle giovani generazioni, sul fatto che potessero autodeterminarsi, costruire e generare da soli i propri percorsi, senza bisogno di guide e insegnanti. Gli educatori che erano presenti al Centro Giovani non imponevano assolutamente nulla, oltre a occuparsi della coordinazione del Centro, erano delle figure di confronto se uno lo desiderava».
Monfalcone è protagonista di importanti cambiamenti sociali e culturali. Tracciamo un commento: quali sono, secondo te i punti di forza e cosa invece non va?
«Allora, io credo che tutto il mondo stia affrontando dei cambiamenti velocissimi, tanto che l'epoca che viviamo è chiamata anche “Grande accelerazione”, proprio perché le urgenze nelle quali ci troviamo sono enormi e velocissime. E hanno a che fare con il clima, con gli spostamenti umani che anche la crisi climatica genera, ovviamente. Come anche le scelte economiche: siccome tutto è interconnesso, l'idea di creare muri e di proteggerci in un fortino, non ha proprio nessun senso. Da un da un lato credo che sicuramente ci siano dei cortocircuiti, delle tensioni sociali, ma dall'altro, avendo anche la fortuna di girare molto, io credo che abbiamo ancora moltissimo margine».
«A Monfalcone ancora si vive bene, c'è possibilità di convivenza. Io non ho l'automobile, quindi mi muovo soltanto in bicicletta o con i mezzi pubblici. Giro la sera da sola e non ho mai percepito la città come una città insicura per una donna da sola. Quindi credo che non ci sia niente che non sia affrontabile. La nostra comunità ha iniziato a essere formata da sempre più persone che sono qua per costruire un futuro migliore. Questo, tra l'altro, non è una novità. Mio nonno è venuto al nord dalla Calabria per fare la stessa cosa e se guardo al suo esempio, anche lui è stato molto ostacolato, pensando anche al matrimonio con mia nonna, in quanto “cabibo”».
«C’era questo pregiudizio secondo cui le persone del Sud non avevano voglia di lavorare». «La famiglia di mia nonna era assolutamente contraria a questo matrimonio, alla formazione di questa famiglia. Alla fine, l'esempio di mio nonno è stato assolutamente vincente e positivo: lui ha amato Monfalcone proprio fino all'ultimo, anche impegnandosi nel nell'associazione Esposti Amianto, quindi diventando comunque una figura importante per la comunità».
Parlando invece dello spettacolo: “The Beat Freedom” fa parte di un insieme di spettacoli in cui il filo tematico è quello delle resistenze al femminile. Da dove è nata questa idea e quali sono stati i feedback che hai ricevuto finora?
«Allora, l'idea parte dalla necessità di recuperare delle storie positive di lotta femminista e di femministe, per demolire certi pregiudizi sul femminismo. Il progetto è partito nel 2009, quindi ormai c'è stata anche l'ondata del “Me too”, del “Quella volta che”. Ma diciamo che all'epoca, se tu dicevi “femminista” le persone un pochino pensavano alla donna aggressiva che brama il potere, che vuole soppiantare gli uomini. Quindi l'idea di questi spettacoli era quella di ricordarci un po’ da dove è partito tutto questo e trovare degli esempi positivi per capire chi sono realmente le femministe».
Sempre “The Beat of Freedom” è anche uno spettacolo intergenerazionale, da coloro che la Resistenza l'hanno vissuta fino ad arrivare a noi e ai giovani della Generazione Z. Proprio come i nostri nonni e bisnonni, anche noi abbiamo le stesse emozioni, la spavalderia, il coraggio della gioventù, vediamo la società mutare, viviamo i primi amori e guardiamo a tutta una vita da costruire. Secondo te cosa accomuna tutte queste generazioni e cosa invece ci differenzia?
«Sicuramente la generazione che ha fatto la Resistenza aveva un nemico molto chiaro: una dittatura fascista e nazifascista contro la quale è stato forse più logico mobilitarsi. Dall'altra parte, loro correvano anche dei rischi che noi non abbiamo idea di che cosa voglia dire: rischiare la vita per le proprie idee e rinunciare a tutto per la lotta, per l'ideale».
«Quindi credo che da un lato siano degli esempi che ci fanno dire “Loro ce l'hanno fatta, erano dei ragazzi normali, normalissimi e giovanissimi perché avevano 12, 14 anni e sono riusciti ad abbattere una dittatura”. Quindi le sfide che le giovani generazioni stanno affrontando adesso, hanno tutte le risorse per affrontarle. Bisogna avere il coraggio di abbattere il sistema».
La libertà è uno dei principali fili conduttori che sta nella trama dei tuoi spettacoli. Cosa significa per te libertà? Cosa vuol dire essere liberi?
«È un ideale che nel mio caso vuol dire riconoscere i privilegi che io ho come donna bianca occidentale, che proviene da una famiglia benestante e che vive in un Paese con il cui passaporto si può andare praticamente ovunque. Significa quindi fare lo sforzo di riconoscere chi non rientra in questo concetto di libertà e chiedermi che cosa posso ancora fare, quali brecce posso aprire con il mio privilegio, nell’ottica di ampliare questo concetto di libertà». «Dall'altro lato, l'idea che neanche la mia libertà è data per scontata, ma che è anzi necessario vigilare. Continuamente ci sono delle erosioni che vanno a incidere sulla mia libertà, anche proprio per il fatto di essere donna. E anche la possibilità di essere felice, credo sia la libertà».
C'è qualcosa che vorresti ti venisse chiesto o c'è qualcosa che vuoi aggiungere in questo spazio di condivisione?
«Per me è fondamentale parlare della presenza di Fabio Babich, che questa sera illustrerà live le lettere partigiane. Anche lui ha radici a Monfalcone e adesso è uno dei fumettisti più importanti di Bonelli. Infine, vorrei anche ringraziare il Comitato del Rione Centro, perché è grazie alla loro ostinazione che siamo riusciti ad essere qui questa sera».
Ha collaborato Margherita Tonut
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