La reporter Mannocchi emoziona Gorizia con 'Lirica Ucraina' e il dramma della guerra

La reporter Mannocchi emoziona Gorizia con 'Lirica Ucraina' e il dramma della guerra

Il racconto

La reporter Mannocchi emoziona Gorizia con 'Lirica Ucraina' e il dramma della guerra

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 17 Feb 2025
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La scrittrice, ospite al Kinemax, ha raccontato volti e storie del conflitto ancora in corso. «Con che criterio costruiamo la pace?».

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Un bambino a torso nudo, solo nel cuore della sua terra devastata. Passeggia sulla voragine aperta dalla bomba mostrando con fierezza un frammento della granata, simbolo di un’umanità smarrita in bilico fra la vita e la morte. È stato proiettato nella serata di domenica - presso un Kinemax sold out – il documentario “Lirica Ucraina” (2024) della reporter e scrittrice Francesca Mannocchi, la quale al termine ha incontrato il pubblico raccontando la propria esperienza di inviata di guerra. Un lavoro che nasce un anno e mezzo dopo l’invasione russa, quando insieme a Daniele Mustica la giornalista ha riguardato le «decine e decine di ore» di materiale spinta «dall’urgenza di capire se tutte quelle storie potessero essere liberate dall’ansia della cronaca».

A parlarci, con la violenza di un pugno allo stomaco e senza mezzi termini, è l’orrore della guerra: brandelli di tende svolazzanti su vetri esplosi, mura di case senza più il tetto dentro cui tamburella la pioggia o entrano fiocchi di neve, così lievi che non fanno rumore. Dove il silenzio è interrotto dalle cannonate e dai bombardamenti, oltre che dal pianto dei bambini in fuga. Un Paese dissacrato in cui nemmeno i morti trovano sepoltura, carbonizzati nell’urlo senza voce che potrebbe richiamare Munch. L’intenzione dell’autrice è applicare al cinema l’insegnamento della bielorussa Svjatlana Aleksievič, Nobel per la letteratura. La quale ammette di essere «una donna-orecchio» perseguitata da quel «demonio» che per lei sono le conversazioni fra i vivi, le stesse che animano il documentario. «Il 27 febbraio, fra le sei e le sei e mezza, sono arrivarti i carri armati pieni di soldati. Qui è morta mia nipote», riporta una prima testimonianza, mostrando materassi accatastati e una cucina senza il pavimento.

Nei campi il vento danza fra le cannelle di palude, mentre il sole lascia risplendere i tramonti prima che il gelo stinga i colori. «L’elemento geografico ha influito molto, sul mio modo di osservare questa guerra – riflette Mannocchi – perché era il primo conflitto che non fosse nordafricano o mediorientale. In inverno le temperature sono rigidissime, possono arrivare anche a meno quindici, e poi è un Paese vastissimo, maestoso. Diversamente dal tragitto Israele – Palestina che si fa in tre ore, l’Ucraina si attraversa in tre giorni. Nei mesi invernali l’Ucraina ha il colore del ghiaccio, neanche bianco. Persino il freddo ha un suo odore. Mentre nella bella stagione scoppia di una luce inenarrabile, con queste immense distese di girasoli». Una bellezza che avrebbe ammaliato Van Gogh, tuttavia stridente con la guerra in corso. «La guerra di trincea si racconta più facilmente in un posto dove non splendono girasoli», commenta con ironia. «Come glielo spieghi, alla primavera, che qui c’è la guerra?».

Fra gli steli bruciati che ancora guardano al sole, come a invocare una pace impossibile, i carri armati rispondono al fuoco nemico. Sopra grattacieli sventrati e macerie delle città risuona il verso spettrale delle sirene antiaeree. I passanti scendono nei rifugi con il borsone pronto. Subito dopo li ritroviamo prendere d’assalto i treni alle stazioni, mentre una voce registrata chiede di mantenere la calma. Oltre le lacrime di chi resta e le valigie di chi abbandona una terra martoriata, si continua a scavare fra le macerie, alla ricerca di sopravvissuti. «Pace – sottolinea una donna di Lyman – abbiamo bisogno di pace», ripete, mentre la gente si sistema negli scantinati e un gatto miagola dentro le tenebre di un rifugio privo di elettricità. «Se il fucile è appeso al muro, un giorno dovrà sparare», osserva un uomo riprendendo un vecchio detto russo. Il fango si mescola ai morti e alle maschere antigas abbandonate a terra, come nella sequenza del sogno in “Stalker” di Tarkovskij. Al quale si contrappone un’apocalisse reale dove la parola “pace” ha smarrito il suo significato.

«Questa guerra ci ha spiegato più delle altre che le vittime ci sono simili – rimarca la reporter – e che i luoghi colpiti somigliavano ai tuoi luoghi. Facendo diventare tutto più prossimo rispetto ad altre guerre come Afghanistan, Iraq o altre. La liberazione di Buča e Irpin ha raccontato una brutalità alla quale non eravamo preparati. L’assuefazione viene nel momento in cui abbiamo cominciato a parlare di Pace, che è risibile, in questo conflitto, se pensiamo ai mille altri passi che possiamo compiere». Richieste per un cessato il fuoco che Mannocchi ritiene «figlie dell’egoismo dell’Occidente e della speranza che le bollette del gas non si alzino troppo».

A complicare l’instabilità europea fomentata dal sogno dell’egemonia putiniana è la conferenza di Monaco e il neoeletto governo Trump – Vance. «Con la nuova amministrazione cambieranno molte cose – teme – e l’Ucraina cederà probabilmente molti territori». E nell’approfondire le modalità per raggiungere una pace duratura: «Quali sono i criteri con cui costruire la pace? Sono quelli che vanno bene a noi oppure a chi ha subito?», domanda. Per poi dedicare le sue riflessioni agli intervistati, che per incanto accettano in ogni guerra di mostrare la propria anima alla telecamera. «C’è un tempo alchemico, in cui le persone vogliono raccontarsi, a noi che in cambio non abbiamo nulla da dare. Come Irina, che dice di essere “sopravvissuta”, o come l’uomo che è stato torturato e che, guardando la sua cagnetta, pensa al momento in cui stava per prendere congedo da questo mondo». Piccoli miracoli quotidiani che attraverso brevi finestre temporali innescano la narrazione e consentono di tramandare all’umanità la propria devastante - quanto preziosa - esperienza. Come il bambino nell’incipit, che muove la sua danza fra le macerie di un’umanità pur sempre in grado di aggrapparsi alla speranza. «Ha cominciato a parlare alla telecamera – ricorda con meraviglia – senza che gli avessi chiesto. Stava trasferendo la sua memoria altrove», attraverso la potenza inesauribile del lirismo. Una poesia intersecata alla musica di Jacopo Incani – in arte Iosonouncane – dove nel finale canta in una sorta di «catarsi delle emozioni». Un film che la regista dedica a suo figlio «che ha sopportato le sue assenze» e a Juri, il soldato falegname con il quale continuava a sentirsi dopo il suo rientro in Italia. «”Sei vivo?”, gli scrivevo. “Stai bene?”». Finché un giorno non ha più risposto ai suoi messaggi. 

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