Reportage ai confini dell'Impero, quando l'Italia scoprì Gorizia e le sue terre

Reportage ai confini dell'Impero, quando l'Italia scoprì Gorizia e le sue terre

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Reportage ai confini dell'Impero, quando l'Italia scoprì Gorizia e le sue terre

Di Timothy Dissegna • Pubblicato il 25 Lug 2021
Copertina per Reportage ai confini dell'Impero, quando l'Italia scoprì Gorizia e le sue terre

Le pagine di fine Ottocento raccontano le terre di confine e la bellezza del Carso, criticando l'operato dell'Austria.

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Dalle pagine della Gazzetta Piemontese, storico quotidiano di Torino fondato da Vittorio Bersezio e Casimiro Favale nel 1867, emergono racconti interessanti legati a Gorizia e alle sue terre. Quello che poi diventerà La Stampa, cambiando nome nel 1894, dedicò infatti diversi reportage a questi territori, all’epoca ancora sotto l’Impero asburgico. Come ricorda lo studioso Marco Barone, che ha svolto un lavoro di analisi negli archivi del giornale, questi articoli “servivano a far conoscere al lettore italiano queste terre che l'irredentismo si contendeva con anche lo scopo di coinvolgerlo sentimentalmente, per convincerlo sull'italianità di queste terre”.

Le firme, quindi, non mancavano di criticare “l'operato austriaco non appena se ne presentasse l'occasione e queste pare non mancassero. Reportage comunque interessanti perché fotografano attraverso la parola lo stato dei luoghi. Come nello scritto pubblicato il 28 settembre del 1889, frutto di un viaggio lungo il confine italo-austriaco. Curioso leggere fin dalla premessa come le problematiche che interessavano la frontiera fossero sostanzialmente le stesse che interessarono quella italo-jugoslavo quando venne apposta la famosa linea francese. Si legge ‘Siamo al confino politico. Bisogna crederci sulla parola, se no chi si immagina che questo sia un confine?’”.

"Vi è chi ha la casa in Austria o la stalla in Italia - prosegue il racconto -, o viceversa; v'è chi ha un cortile che fino a un certo punto è italiano e poi diventa austriaco, perché ci passa di mezzo o a tre quarti o a quattro quinti la famosa ‘linea ideale’; può darsi perfino il caso che una carrozza corra lungo un pezzo di strada con due ruote in territorio del regno e due in quello dell’impero". Nei luoghi citati, ci sono Cormons e la Nizza d’Austria, “dopo aver visto dalla ferrovia i dintorni ‘splendidi di questo paradiso delle vedove, degli impiegati in pensione, dei principi a riposo o dei re in disponibilità. Dopo Gorizia la ferrovia fa una gran voltata e scende a Gradisca”.

Qui “c'è un grande albergo governativo per i condannati a più che dieci anni, e da Gradisca si scende ancora a Sagrado ed a Ronchi, fin da quest'ultima località che si può far la gita di Aquileia o di Grado. Ci si va per una strada quasi diritta, lungo aperta campagna, o che mette capo appunto all'antica sede dei patriarchi. Quando ci si trova li e si pensa a ciò che quei luoghi furono un tempo, al posto che occupano nella storia, al valore che hanno per gli amanti di antiquaria, e a quello a cui son ridotti oggi, in parola d'onore vien male e si sente qualcosa come una febbre di malaria, all'anima". Il giornalista proseguì da Ronchi a Monfalcone, celebre per le sue acque.

“Di Monfalcone antica restano - si legge nel reportage -, su di un'altura oggi disgiunto dall'abitato, i ruderi di un castello in cui tennero guarnigione prima i romani, poi i veneziani contro i turchi; e da Monfalcone, press'a poco, incomincia quell'esteso altipiano sassoso, che si chiama Carso (da Kar, voce galloceltica che significa pietra)”. C’è poi la descrizione del Carso, “ancora i cui effetti del rimboschimento voluti dall'Impero - evidenzia Barone - ancora non erano impattanti”, portando alla nascita di circa 873 ettari di bosco con l'utilizzo di quasi 15 milioni piantine. La Gazzetta parla quindi di “desolazione pietrosa”, dopo quella della laguna.

“Immaginatevi dunque un altipiano ondulato, (…) tutto a sassi sminuzzati a scaglia. Fra questi sassi s'affatica a crescere miseramente un po' d'erba; appena qua e là, a distanze grandissime, qualche povero tentativo di arbusto. È una monotonia che stringe il cuore; ma quel bianchiccio e quel grigio dei sassi, sommato con quel verde pallido, riesce ad una intonazione che non manca dì pittoresco. Poi c'è l'impressione morale, e voi sapete che anche la più desolante ha le sue attrattive: è bella. In questo immenso altipiano non si vede quasi traccia di umanità. (…) Questo Carso è un tratto di mondo meraviglioso, di cui dobbiamo ringraziare chi sa quali commovimenti vulcanici".

Nella foto: corso Francesco Giuseppe e Caffé Teatro a Gorizia, 1900, Collezione Mischou, Fondazione Carigo

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