Quelle sei storie fragili di grande libertà, il viaggio di Floramo e Rizzato a Gorizia

Quelle sei storie fragili di grande libertà, il viaggio di Floramo e Rizzato a Gorizia

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Quelle sei storie fragili di grande libertà, il viaggio di Floramo e Rizzato a Gorizia

Di Eliana Mogorovich • Pubblicato il 26 Mag 2024
Copertina per Quelle sei storie fragili di grande libertà, il viaggio di Floramo e Rizzato a Gorizia

Oggi a Palazzo De Grazia il viaggio sentimentale con Angelo Floramo e Flavia Rizzatto, partendo dai disturbi del comportamento alimentare.

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Cinque, anzi sei storie: delicate, commoventi, coinvolgenti. A Palazzo De Grazia di Gorizia l’incontro “Piccole date di grandi libertà per cuori in gabbia. Associazioni in rete e opportunità di cura per uscire dai dca e sconfiggere lo stigma” è stata una narrazione, un viaggio sentimentale, in cui alla fine l’argomento dei disturbi del comportamento alimentare è stato semplicemente il canovaccio su cui disegnare un racconto degli adolescenti e delle famiglie di oggi e di ieri. Il tutto grazie alla sensibilità narrativa di Angelo Floramo, a èStoria.

A rompere il ghiaccio (o meglio: gli argini da cui sono sgorgate diverse lacrime) è stata la lettera di Antonia, una giovane ex paziente che ha consegnato ad affilate e pungenti parole il racconto di cosa significhi vivere e superare una patologia del genere: «Chi si ammala è una vittima e non di sé stesso, ma di una voce cattiva che è quella della malattia. Bisogna capire quale sia questa voce e combatterla, per questo è difficile guarire. Bisogna andare contro le sue convinzioni e capire che fuori dalle sbarre della malattia c’è la paura ma anche la vita: si riscopre il mondo intorno a noi e non c’è più necessità di regola: perché l’ossessione al rigore e alla rigidità porta via troppa anima».

A condurre l’incontro, affollato nonostante la concomitanza di un panel di grande richiamo come quello di Federico Rampini, Flavia Rizzatto, genitore facente aprte dell’Associazione Fenice Fvg che si occupa appunto di dca e già assessore alla Cultura del Comune di San Daniele. La conversazione, realizzata con la partecipazione del Lions Club Gorizia Host all’interno di Palazzo De Grazia, ha seguito un filo rosso di parole legate ai disturbi alimentari ma non solo, declinate da Floramo attraverso aneddoti che hanno permesso di passare dalla tristezza al riso.

«Data è la prima delle cinque parole. Segna un inizio e una fine: chi inciampa in un dca non ricorda quando sia iniziato ma sa perfettamente quando è stato il momento in cui ha deciso di uscire, è un clic che dice non posso più sopravvivere così, è una rivoluzione».
«Ho tanti clic da dovermi tatuare, soprattutto di una felicità dirompente: ma sono quelle ambivalenti i più importanti perché segnano una metamorfosi. Ne ho una verso cui provo grande vergogna, di cui non parlo volentieri: il 22 dicembre 1990. Ero un giovanissimo insegnante, il mio primo incarico come professore in una scuola di montagna, avevo la testa piena di sogni, utopie e presunzioni».

«Ricordo una ragazzina in primo banco che non voleva seguire le mie lezioni di Dante, addirittura si addormentava sul banco. Lo prendevo come una sfida all’autorità, l’ho redarguita anche con un po’ di brutalità, ho mandato delle comunicazioni a casa. A un certo momento non si è più presentata a scuola e io ero preoccupato perché il mio compito di bravo insegnante era finire il programma. Dopo qualche settimana arriva la comunicazione che “Lara”, la chiamerò così, si è tolta la vita. Quel 22 dicembre entro in sala insegnanti, apro uno dei miei cassetti e vedo scivolare a terra un foglietto con sopra scritto “Prof, aiutami”».

«L’ho aperto troppo tardi: non sapevo che a casa avesse grossi problemi di violenza e di abuso e allora lei era scivolata in questo meccanismo di sottrazione del cibo. Da allora ho avuto decine di studenti ma nella mia testa io sono stato solo l’insegnante di Lara perché è sulle cadute che poi si imposta il proprio modo di essere educatori e da quel momento non è stato più importante finire il programma: ciò che conta è parlare e capire chi ti sta di fronte. Quando un ragazzo scrive un tema in cui manifesta un disagio non riesco a correggerlo con la penna rossa, a pensare all’ortografia o alla consecutio temporum perché in quel momento un ragazzo mi mette in mano la sua vita».

«Seconda parola: esule, cioè essere fuori da un luogo che può essere il corpo. Ma a proposito di luoghi, qual è o quale è stato il tuo luogo sicuro?»

«Ognuno di noi ha un luogo fisico o interiore in cui tornare, per me è la casa dei nonni, una vecchia abitazione contadina alla periferia di San Daniele dove mio padre, esule istriano, mi ha mandato quando avevo cinque anni perché mia mamma stava molto male e venne portata in ospedale a Milano, non si sapeva se sarebbe tornata. Io ho cominciato a non mangiare perchè mi mancava e quando mia nonna mi dava la minestra non riuscivo a mangiarla, lei me la imponeva e io piangevo ancora di più».

«Mio nonno invece mi portava in un bosco dove mi diceva che c’erano le fate e poi mi portava nella sua osteria dove si faceva cucinare la trota che lui stesso aveva pescato. Non mi metteva il piatto davanti ma poco per volta, mentre mi parlava di fate, mi sono accorto che allungavo la mano verso quel cibo e mi ha fatto ri-innamorare della vita».

«Stigma: quando si è fuori dai canoni le persone ti mettono in fronte un’etichetta che per chi soffre di dca diventa uno stigma in cui finiscono per rientrare anche le famiglie, considerate disfunzionali, inadeguate, incapaci di amare. Ma tu, che adolescente sei stato?»

«Un adolescente sbilenco e asistematico, oscillavo fra musoneria incupita e voglia di contraddire in continuazione il potere costituito, che era mio padre. Adesso che sono padre e ho una figlia ribelle penso che il destino mi stia presentando il conto, io cercavo lo scontro diretto. Per esempio quando ho finito la terza media mi hanno consigliato il liceo classico, mio padre ne era orgoglioso ma io per oppormi volevo fare il tornitore: poi siamo arrivati al compromesso del liceo scientifico, dai preti. Allora al primo giorno di scuola, tornando a casa mi sono proclamato comunista: e lui era un esponente della democrazia cristiana».

«Gratitudine: nell’associazione ho trovato una casa, persone che mi hanno accolta, abbracciata, sostenuta, un luogo in cui non mi sono sentita colpevole. Spesso questi disturbi sono considerati un capriccio. Cosa stiamo dando oggi ai ragazzi perché domani possano sentirsi grati?».

«Credo che fare l’insegnante sia un privilegio perchè hai una tribuna da cui ogni giorno puoi intercettare la luce di domani. Un privilegio è anche starli ad ascoltare ma credo che lo facciamo poco: abbiamo sempre cose troppo importanti cui pensare per ascoltarli mentre loro hanno dei multiversi, degli arcipelaghi e delle galassie da esplorare che spesso vorrebbero esplorare con noi. A volte non vogliono ascoltarci, perché non accettano chi ha la verità in tasca ma allora possiamo dire che, avendo fatto più strada, abbiamo alcune prospettive. Sono convinto che ognuno a modo suo deve restituire ciò che ha avuto: le cose che hai imparato come fai a tenertele per te? Se non consumi quello che hai a cosa ti serve?».

«Madre: una parola che è un macigno, perché comunque vadano le cose è sempre colpa delle madri».

«Come Dante credo che voi donne abbiate intelletto d’amore, cioè la difficilissima capacità di leggere dentro le cose. Se ci fossero “matrie” invece di patrie quello che stiamo vedendo non accadrebbe perchè nessuna donna sarebbe orgogliosa di vedere il proprio figlio, fratello o compagno tornare a casa avvolto in una bandiera. Credo sia necessaria una rivoluzione antropologica, per capire che chi disprezza la donna disprezza la terra che è nostra madre e che tutti noi abbiamo sotto gli occhi».

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