S di SAGRA DI SAN ROCCO
Quattrocento anni di balli e tradizioni, la sagra di San Rocco racconta la storia di Gorizia
Dalla festa in piazza all'attuale ubicazione al Baiamonti, l'appuntamento ha scandito i secoli del borgo e della città.
Carlo de Morelli, nella sua Istoria della Contea di Gorizia, nel IV volume, a pag. 104, annotava con grande precisione che nel 1500 veniva consacrato la domenica penultima di agosto da Pietro Carlo Vescovo di Caorle, Vicario del Patriarca Domenico Grimani, l’altare maggiore della chiesa di S. Rocco presso Gorizia, a conclusione di questo giorno memorabile per l’antico Borgo ci fu una piccola sagra di ballo. Dopo il grande avvenimento le notizie diventano frammentarie e la storia della festa di San Rocco si avvolge in una impenetrabile oscurità.
Bisogna attendere oltre un secolo, fino al 1623, quando i goriziani fecero voto, come ringraziamento per essere sfuggiti dalla terribile pestilenza che aveva decimato l’Europa, di restaurare e ampliare la piccola cappella primitiva dedicata ai Ss. Sebastiano e Rocco e di farvi visita ogni 16 agosto. Il 23 agosto del 1637 il Vescovo di Trieste Pompeo Coronini consacrava l’altare maggiore della chiesa e proprio da questa data si può far iniziare, con certezza, la tradizionale sagra del borgo di San Rocco che non sarà mai disgiunta dai festeggiamenti legati al Santo Patrono.
Dopo le pestilenze del XVII secolo, durante le quali le popolazioni ricorsero all’intercessione di San Rocco, la devozione si radicò profondamente nella pietà popolare per cui il tempio sanroccaro era considerato alla stregua di un santuario votivo. Nella notte tra il 15 e il 16 agosto le abitazioni e le aie delle case contadine del borgo, specie quelle più prossime alla chiesa, ospitavano i pellegrini per un ristoro, seppure precario, su improvvisati giacigli di paglia. Assolte le pratiche di pietà, nella stessa mattinata del giorno 16 essi riprendevano la strada del ritorno.
Il giorno di San Rocco la chiesa, il sagrato e la piazza pullulavano di parrocchiani, di cittadini e di forestieri i quali fin dall’alba si avvicendavano in preghiera nel tempio. Alla processione votiva dal Duomo a San Rocco (istituita per volere dei goriziani nel 1623 dopo l’epidemia di peste) e che si snodava per le vie Rabatta, Vogel (oggi Baiamonti) e Parcar, intervenivano il principe arcivescovo, il capitolo metropolitano e una folla di fedeli. Per buona parte del secolo XIX, prendevano parte al corteo anche autorità civili, infatti un giornale dell’agosto 1883 riferiva che “non sono trascorsi molti anni che il borgomastro o podestà di Gorizia, in adempimento al voto, assisteva alla processione con un numeroso stuolo di concittadini”.
Nella piazza erano allineate le bancarelle con giocattoli, bigiotteria, ricordini di San Rocco ma sopratutto dolciumi tra cui le caratteristiche ciambelle (i colàz) nonché l’immancabile anguria. Presso l’ingresso della chiesa erano esposti, a cura del sagrestano, piccoli oggetti in cera riproducenti alcune parti del corpo che il pellegrino, a seconda delle parti cui era stato o era sofferente, acquistava per deporli come richiesta di grazia davanti all’altare. In tempi più lontani, come sottolinea Ranieri Mario Cossàr nel suo Cara vecchia Gorizia, del 1927, il sedici agosto, le donzelle appena uscite di chiesa, dopo la Messa cantata, donavano al giovanotto, verso il quale nutrivano della simpatia, un fiocco di seta per il cappello, da ciò il detto: Per San Roc il fantat cul floc.
Alla parte religiosa seguiva, la domenica successiva, quella dedicata al divertimento, cioè la sagra vera e propria con il ballo in piazza, sul tavolato (brear). Molto per tempo i giovani del “comitato del ballo” (i fantas dal Bal) dalla stampa ottocentesca citati come “impresari del ballo” si adoperavano con entusiasmo nei preparativi. La sera della vigilia, mentre dalla torre si diffondevano festosi scampanii (che iniziavano già qualche giorno prima), provvedevano ad installare alberelli ornamentali (i Majs) dinanzi alla chiesa davanti al cui ingresso veniva eretto un arco (puarton) inghirlandato di sempreverde e di fiori e con la scritta “Sancte Roche ora pro nobis”.
Altri alberelli ornavano la canonica, la piazza e le soglie delle osterie del borgo i cui titolari ripagavano i giovani con una generosa bicchierata. I sanroccari che per motivi vari vivevano fuori dal borgo o fuori città amavano ritornare nel luogo natio per trascorrere con i parenti e amici queste liete giornate. All’imbocco di via Parcar veniva eretto un arco a base di conifere e di edere trapuntato di fiori e sormontato da una scritta allusiva alla festa: il cosiddetto “trasparent”, cioè un cartone nero sul quale venivano praticati dei fori in modo tale da raffigurare un soggetto che variava di anno in anno e dietro veniva posto un lume che faceva risaltare l’immagine, la più ricorrente raffigurava il castello.
Alberelli, globi cartacei, fiori e drappi conferivano un tono particolarmente festoso alle case fino alla piazza San Rocco dove coppie di ogni età e condizione sociale danzavano a tempo, come rileva il Cossàr, dell’“armonica musicale” del bandista Pelizon o di quella dello Zuccon, rampolli delle onorate dinastie di suonatori dell’Ottocento. Da notare che, fino al primo decennio del XX secolo, la piazza appariva come un vero salotto in quanto, sul lato nord, era delimitata da un edificio scolastico e, verso l’inizio di via Lunga, dalle case coloniche di proprietà dei Lantieri, abitate dalle famiglie borghigiane dei Madriz e dei Zotti.
Alla festa intervenivano spesso le autorità e talvolta anche il capitano provinciale in quanto fino all’inizio della prima guerra mondiale gli organizzatori intendevano solennizzare, con la sagra, il genetliaco dell’Imperatore Francesco Giuseppe I, che ricorreva proprio il 18 agosto. La cerimonia d’inaugurazione seguiva un copione ben preciso: vi era il saluto dei giovani all’effigie dell’imperatore, la banda suonava, si offriva il vino alle autorità presenti che in segno di gradimento lasciavano cadere su di un vassoio una manciata di monete e solo a quel punto si potevano aprire le danze. I primi tre balli erano gratuiti e prerogativa dei “zovins dal bal” che, con gli abiti nuovi di foggia, invitavano a danzare le giovani borghigiane, osservate con particolare attenzione dalle rispettive madri sedute attorno al tavolato.
Conclusi i primi tre balli le danze erano aperte a tutti ma a pagamento, solitamente si cumulavano due o tre turni senza uscire: in un passato lontano le coppie per accedere al “brear” (delimitato da una balaustra in legno con due passaggi, uno per l’entrata e l’altro per l’uscita) pagavano dieci soldi, mentre negli anni Venti e Trenta del secolo scorso la tariffa era di una lira per tre balli. Alcuni giovanotti, sostenendo una lunga corda, convogliavano con la dovuta delicatezza i ballerini all’uscita dalla pista che subito andava riempiendosi di altre coppie che usufruivano dell’altra apertura munita di cassa.
Era questo, in genere, l’unico introito che consentiva agli organizzatori di affrontare le spese per la festa allestita soprattutto per un profondo rispetto della tradizione. Nell’Ottocento la banda era formata da pochi orchestrali ma immancabili erano il contrabbasso, il violino, il clarinetto e la fisarmonica. Tra la fine del XIX e il primo decennio del XX secolo anche i ritmi erano mutati e accanto ai tradizionali come “la furlana”, “la mazurka” e “la roseana” si aggiunsero il walzer e la polka. Nelle sue cronache del Borgo lo storico e crononista Guido Alberto Bisiani racconta che nel corso della serata venivano lanciati i fuochi d’artificio e un tempo si sparavano anche colpi di mortaretto ma in seguito a qualche incidente la rumorosa operazione venne soppressa.
Nelle case e nelle osterie del borgo si consumava il dolce tipico della sagra sanrocchese: Strucui cusinas tal tavajus ossia struccoli avvolti nel tovagliolo. È ben noto, inoltre, che non ci poteva essere sagra senza la classica baruffa che diventava anch’essa tradizionale: “Se no favin baruffa, no contàvin fiesta!”, ciò fa riferimento ai tempi più antichi quando bisognava chiedere all’autorità austriaca il permesso di organizzare il ballo, autorizzazione che veniva data con estrema reticenza in quanto molto spesso le sagre finivano in rissa o gli organizzatori erano persone che non avevano tenuta una “buona condotta”.
Tra il 1914 e il 1922 la sagra venne sospesa, causa il devastante primo conflitto mondiale, e riprese proprio il 16 agosto 1923, quando alcuni sanroccari si attivarono perché questa antichissima tradizione non si perdesse definitivamente sotto le macerie della guerra. Negli anni Quaranta l’organizzazione della sagra passò alla Società Sportiva Isontina e dal 1948 l’iniziativa venne assunta dai contadini autoctoni in alternanza con altri gruppi. L’ubicazione venne modificata, pertanto non si poteva più parlare di un ballo in pubblica piazza ma i festeggiamenti si trasferirono all’interno del campo sportivo Baiamonti.
Negli anni Sessanta il mutare dei tempi e il crescente benessere fece trascurare quelli che erano stati i valori fondanti di questa grande festa e così, i borghigiani più anziani, decisero di riunirsi in un sodalizio che trovava già nella sua intitolazione un denominatore comune e cioè la conservazione e la valorizzazione delle tradizioni. Nacque proprio nel 1973 il Centro per la Conservazione e la Valorizzazione delle Tradizioni Popolari che, a tutt’oggi, si cura della complessa organizzazione della plurisecolare sagra.
Nei tempi recentissimi alcune novità importanti hanno ancora maggiormente caratterizzato l’evento agostano, infatti, oltre alla classica pesca di beneficenza e alle due immancabili tombole, si possono acquistare libri, di vario genere, a peso, la prima domenica di sagra è dedicata alla rassegna di arte campanaria che vede confrontarsi gruppi del Goriziano e della Slovenia (è la più antica rassegna del Friuli Venezia Giulia), il Centro per le Tradizioni, più comunemente detto, si occupa di realizzare mostre a tema, alcuni pomeriggi sono dedicati o alla presentazione di libri di autori locali o a conferenze sulle tradizioni enogastronomiche autoctone. La sagra in quanto tale continua ad appassionare i goriziani, e non solo, e anche se i secoli trascorrono lei continua, sempre con la freschezza giovanile, a caratterizzare la fisionomia di un borgo antico.
Foto Flavio Chianese
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