l'editoriale
Di Primo maggio, idromele e don Trampus
Nella Festa del Lavoro recuperiamo il valore dello scendere in piazza, ricordando le necessarie battaglie senza abbassare la guardia.
Si disperde la folla dopo le orazioni ufficiali per la festa del Primo maggio. Piazza della Repubblica a Monfalcone, lentamente, ripiomba nella calma. Mentre c’è già chi, concluso il proprio dovere morale, si dirige agli scranni dell’Idromele, e altri tornano alla propria quotidianità, certi che da domani, o, forse anche peggio, già dal pomeriggio, tornerà tutto uguale nonostante proclami e urla, il mio pensiero va a un pomeriggio di quattro anni fa. Sotto la frasca di un bar, all’ombra del campanile di San Lorenzo di Ronchi, ascoltavo, con un po’ di distrazione, lo ammetto, il racconto di Don Renzo assieme all’amico Salvatore.
Don Renzo stava tratteggiando alcuni momenti non semplici della storia locale: solo a citare il primo maggio 1945, a molti verranno in mente i giorni dell’occupazione jugoslava. In un momento storico così difficile, dove i lavoratori si radunavano con i fucili nascosti nei camion, pronti, nel caso fosse stato dato l’ordine di procedere con una “rivoluzione”, forse anche per creare la famosa settima federativa, l’aneddoto che don Renzo stava riportando in vita vedeva protagonisti alcuni giovani dell’Azione cattolica di Ronchi che, un po’ insultati dall’allora cappellano durante un’omelia, avevano deciso di recarsi a Monfalcone. Scemata la possibilità di una rivoluzione, la soluzione era stata chiara: lanciarsi sugli scranni già citati.
La baldoria, dunque, proseguì, portando il gruppo di sventurati, e poi vedremo il perché dell’epiteto, a San Canzian d’Isonzo nel tardo pomeriggio. Nonostante la festa laica, il primo giorno del mese di maggio, per i cattolici, è l’inizio del mese mariano. Dunque, pronta la funzione serale, nella chiesa parrocchiale i fedeli attendevano l’inizio del rito. A impossibilitarne l’inizio fu lo schiamazzo forte del gruppo di giovani, evidentemente obnubilati dall’alcol. La reazione del parroco, don Mario Trampus, fu esemplare anche nell’esagerato: il curato, bardato con i paramenti sacerdotali, uscì di chiesa e, presa la mira, colpi con un gancio destro il primo malcapitato che gli si era parato a tiro.
La reazione alla don Camillo, portò le sue conseguenze e qualche mese dopo lo stesso don Mario, ritornando da alcune partite a carte a Pieris, fu fermato sul ponte fra i due paesi, picchiato, umiliato orinandogli addosso e lasciato sanguinante sulla strada. Pur ricordandoli, non fece mai i nomi degli aggressori. Perché, si domanderà il lettore, il racconto di questi fatti proprio oggi, festa del lavoro e del lavoratore? Per la mia intima convinzione, estremamente personale, che ora come allora spesso non si sappia bene il perché si scende in piazza.
In una situazione economica al limite del delirio, per noi che siamo stati abituati negli ultimi anni, decenni, ad un tenore di vita e una sicurezza sociale non indifferenti, la difesa di certi diritti, del lavoro, del giusto salario, della sicurezza sul posto di lavoro, e la promessa di serietà da parte del schiere politiche, sindacali, amministrative, sono i punti chiave sui quali, credo, non sia necessario aggiungere altro. Lavorare per la collettività e per la società: magari meno scranni, meno idromele, ridando quel senso di onore, di giustizia e di sacralità a questa giornata. E, chissà, anche un po’ di quella pietà e perdono dimostrati da don Trampus.
Foto Joley/Flickr
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