Il Premio Macedonio a Vittorio Franceschi, «il mio rapporto con Gorizia»

Il Premio Macedonio a Vittorio Franceschi, «il mio rapporto con Gorizia»

la premiazione

Il Premio Macedonio a Vittorio Franceschi, «il mio rapporto con Gorizia»

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 24 Gen 2024
Copertina per Il Premio Macedonio a Vittorio Franceschi, «il mio rapporto con Gorizia»

Ieri sera la consegna del premio al celebre attore e regista bolognese, «dopo sessant’anni di avanguardia non è nata una nuova drammaturgia».

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Un fiume in piena, Vittorio Franceschi, un cuore in tumulto. Prossimo al traguardo dei novant’anni, con la sua energia travolgente interpreta “I fiumi” di Ungaretti, trascinando il pubblico di fronte all’albero mutilato, con sola la forza dell’evocazione. Si è svolto nella serata di ieri – presso il Ridotto del Teatro Verdi a Gorizia – la premiazione dell’attore e drammaturgo bolognese Franceschi organizzata dal Collettivo Terzo teatro. Un premio giunto alla sua terza edizione, svolto con la partecipazione di Ariella Bordon, vincitrice della prima edizione.

«Ormai siamo quasi all’8 febbraio, quando mancherà un anno esatto dall’inaugurazione della Capitale europea della cultura», ha ricordato l’assessore Fabrizio Oreti, ringraziando il teatro e Alex Pessotto per aver organizzato l’evento. A moderare l’incontro Paolo Quazzolo, docente di Storia del teatro all’Università di Trieste. «Se Francesco Macedonio avesse scelto di non restare legato alla sua terra, sarebbe assurto alla fama di Strehler o Ronconi», sostiene Quazzolo, esprimendo soddisfazione per il riconoscimento a Franceschi. L’incontro di Franceschi con Macedonio avvenne nel 1966, in occasione della messa in scena di “Gorizia 1916”.

«Mi fu commissionato da Sergio D’Osmo, direttore del Teatro stabile di Trieste, poi del Friuli Venezia Giulia – ricorda l’attore e autore - Perché nel ’66 ricorreva il cinquantesimo anniversario della presa di Gorizia durante la Prima guerra mondiale. Siccome avevo scritto “Pinocchio minore” – che non è un testo per bambini – D’Osmo mi chiese se me la sentissi di scrivere su Gorizia. A quei tempi si affidava a un ventiseienne la stesura di un testo, oggi sarebbe impensabile». Traendo ispirazione dal poemetto “La sagra di Santa Gorizia” di Virgilio Locchi, il giovane decide d’intitolare il testo “La maledetta santa”.

«Fui convocato in direzione, insieme a Guido Botteri e Sergio D’Osmo, il quale mi convinse a modificare il titolo». Il lavoro suscitò comunque polemiche, perché «ne feci un testo contro la guerra». Il 18 dicembre del 1966 lo spettacolo andò in scena a Gorizia, dopo i controlli dei poliziotti in borghese, per proseguire a Trieste, con il debutto di Gianni Cavina. «All’ottava replica, marito e moglie si alzarono dal pubblico, urlando: “Questo è disfattismo!”», per poi abbandonare il teatro. Uno spettacolo che vide sospese le ultime due repliche a causa di «questi scossoni».

La collaborazione con Macedonio riprese nel 1973, insieme al sodalizio con Dario Fo e Franca Rame. «Da allora Cesco diventò regista per la “Nuova scena”. Alla “Ballata dello spettro” seguono altri sette otto spettacoli. Poi, dopo dodici anni, la storia finisce. Perché il teatro si fa come la staffetta, ci si passa il testimone. Per quale motivo oggi il teatro attraversa una crisi di valori e d’identità? Perché le avanguardie degli anni Sessanta, a partire da Carmelo Bene, non hanno passato la staffetta». Da allora abbiamo assistito a una disintegrazione del teatro italiano, con una diffusione del Living theatre, del neorealismo di Tennessee Williams e del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett.

«Quando ci si limita a imitare, ci si affloscia. Abbiamo attraversato decenni di rimescolamenti. Dopo sessant’anni di avanguardia non è nata una nuova drammaturgia». Un amore per la drammaturgia iniziato all’Accademia antoniana di Bologna, fondata nel 1956. Impiegato in ufficio, «di giorno lavoravo e la sera studiavo». Fino alla partenza, alla volta della città meneghina, nel 1958. «Sono partito per Milano con la valigia di cartone, per me era un viaggio verso l’ignoto». Dopo aver perso i genitori – il padre a 7 anni, la madre a 19 – abbandona l’Emilia.

«Mentre mia madre stava per morire mi chiese di non lasciare il mio lavoro. Le promisi che non l’avrei lasciato, sapendo di mentire. Una bugia sacrosanta, detta a fin di bene», perché ormai il teatro gli era entrato nel sangue. «A Milano mi chiamarono due amici. Nuccio Ambrosino contattò Fo, che cercava attori e collaborava con l’Arci. Ogni spettacolo viaggiava per sei-otto mesi di tournée, superando di gran lunga le 120 giornate richieste dal ministero per ottenere i contributi. Con Dario avevo un ottimo rapporto. Quando scrissi “Un sogno di sinistra” ispirato al “Ritorno del figliol prodigo” di Gide, Dario lo lesse, disse: “Avrei voluto scriverlo io”».

Dopo due anni, avviene la separazione da Fo - che fonda “La comune” – per poi trasferire “Nuova scena” a Bologna. Due spettacoli segnano ancora la carriera del drammaturgo: “Das Kapital” di Giraldi - tratto da Malaparte - e “L’affaire Danton” di Wajda. «Malaparte aveva scritto il testo in francese, Mario lo aveva tradotto», così da studiare il testo e la dizione. «Per Wajda, Mario disse: “Dobbiamo farlo venire in Italia. Allora non c’erano i telefonini. Mario da un telefono a gettoni telefonò in Polonia all’agente di Wajda, parlando in francese. E lui venne a Trieste. Tutto si può fare, bisogna usare lo spirito».

Poi fu la volta di Benno Besson: «Una sera mi fece telefonare dal suo scenografo, Ezio Toffolutti. “Vuoi venire a Ginevra a recitare?”. Lo spettacolo era tratto da un testo di Rosso di San Secondo, “Il delirio dell’oste Bassa”. Chiesi a un amico di Orléans di tradurlo in francese, registrandolo su bobina la pronuncia corretta». A consegnare il premio al grande maestro, Marta Macedonio. «Cesco aveva la capacità di capire il talento degli attori, un intuito raro, e capacità di farsi voler bene. Conferiva al teatro quella magia che ne faceva un teatro d’arte».

Dopo il racconto commosso dedicato alla moglie Alessandra Galante Garrone – scomparsa prematuramente a 59 anni – Franceschi chiude con un’interpretazione di Ungaretti e Pascoli. «I versi de “I fiumi” li scrisse nel 1916, quando era fante sul Carso. Fu grazie a questa che ottenni la mia prima scrittura. La seconda è “Valentino” del Pascoli, regolarmente massacrato in tutti i sussidiari dagli allievi e dalle maestre». Da ultimo, l’epilogo di “A corpo morto”, scritto di pugno dall’autore, a racchiudere l’essenza del proprio credo: «E non temere il fuoco – recita con passione – Datti alle fiamme, se ti vuoi salvare. Molto dolore è meglio di poco amore».

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