Peteano, il ricordo di una strage che segnò l'Italia 50 anni fa

Peteano, il ricordo di una strage che segnò l'Italia 50 anni fa

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Peteano, il ricordo di una strage che segnò l'Italia 50 anni fa

Di Timothy Dissegna • Pubblicato il 31 Mag 2022
Copertina per Peteano, il ricordo di una strage che segnò l'Italia 50 anni fa

Mezzo secolo fa la bomba che uccise tre militari, il ricordo di chi visse quei momenti.

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Le lancette della storia tornano su quell’ora, così come accaduto 50 anni fa. Petano oggi è un nome conosciuto in tutta Italia per la pagina nera che si è consumata quel 31 maggio 1972, quando una Fiat 500 parcheggiata saltò in aria nella notte, provocando la morte di tre carabinieri: il brigadiere Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni. I segni di quella bomba rimarranno anche sul corpo del tenente Angelo Tagliari e del brigadiere Giuseppe Zazzaro, feriti entrambi. L’inizio di un mistero.

“Oggi dobbiamo ancora capire i dettagli di quella vicenda” spiega Ivan Buttignon, già autore di diversi volumi sui rapporti tra estrema destra e terrorismo. I nomi che la storia, giudiziaria e accademica, hanno consegnato alla notorietà sono quelli di Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini, condannati entrambi all’ergastolo, nonché quelli di alcuni vertici dell’Arma. Gli stessi che si resero responsabili di depistaggi per non svelare i rapporti tra apparati dello Stato e le forze nere, in particolare Ordine nuovo.

Un vortice, quello delle vicende giudiziarie che si sono sviluppate fino agli inizi degli anni Novanta, che hanno travolto persone e simboli. A monte, però, c’è l'episodio che ha rappresentato per molti un “11 settembre” locale, ricordando perfettamente dove si era e cosa si stava facendo quando il tuono irruppe nei cieli della provincia di Gorizia e non solo. “Quella sera avevo rimesso di lavorare alle 20 - racconta Angelo Nigro, all’epoca carabiniere a Gradisca e oggi presidente dell’Anc di Farra - ed ero rientrato a casa”.

“Alle 21.20 un maresciallo mi è venuto a prendere, dicendo che era successa una disgrazia - prosegue l’ex militare -. Non si sapeva ancora quanti colleghi fossero deceduti. Siamo arrivati lì e stava bruciando tutto, tutte le piante erano a fuoco, nonostante la pioggia che cadeva. Un colonello ci ha detto di prendere tutto quello che c’era in giro, pezzi di carne e persona, e cercare le armi dei tre (carabinieri morti, ndr) che erano sparite. Una è stata trovata l’indomani mattina, a cento metri sulla ferrovia”. La scena del crimine era un inferno.

Già poche ore dopo quell’esplosione, arrivò in zona il colonnello Dino Mingarelli, comandante della legione di Udine. L’ufficiale avvocò subito a sé le indagini, portando l’attenzione dapprima su una cellula di Lotta continua - rivelatasi subito inconsistente - e quindi su sei persone incensurate goriziane che vennero arrestate con l’accusa di essersi voluto vendicare contro i carabinieri. Una settima sarà denunciata. Per loro iniziò un turbine giudiziario e mediatico che solo sette anni dopo troverà risposta in tribunale, con l’assoluzione.

Gli echi dei depistaggi delle forze dello Stato e dei nomi dell’estrema destra non erano ancora arrivati. Lo stesso Mingarelli sarà condannato. Rimaneva solo il dolore dei familiari di chi, quella notte, non sarebbe più tornato a casa. “Quella sera non riuscivo ad addormentarmi - ricorda ancora oggi Antonella Ferraro, vedova del brigadiere all’epoca incita - e il cane aveva iniziato ad abbaiare, passata la mezzanotte. Vidi fuori dalla finestra dei carabinieri e mio padre disse che non era successo nulla di preoccupante. All’alba, quando mi risvegliai, trovai il letto vuoto”.

Notò quindi un via vai di persone nel cortile di casa e il padre le disse che il marito, insieme a due colleghi, “aveva avuto un brutto incidente”. Alla richiesta di andarlo a trovare in ospedale, le fu risposto di no: “I militari, verso le 15 del pomeriggio, mi misero al corrente”. Ripensando ai primi accusati di quell’efferato omicidio, “mi sembrò un po’ strano quando mi dissero che erano stati loro. Non li ho mai giudicati, mi è dispiaciuto per loro perché hanno perso tanti anni e non ho condannato nemmeno Vinciguerra. Non sono io a doverlo fare”.

Nella foto: la 500 dopo l'esplosione, i funerali a Gorizia, i tre carabinieri uccisi e il monumento di Peteano.

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