Paolo Triestino porta Le gratitudini a Cormons, «il mio grazie va a mia moglie»

Paolo Triestino porta Le gratitudini a Cormons, «il mio grazie va a mia moglie»

l'intervista

Paolo Triestino porta Le gratitudini a Cormons, «il mio grazie va a mia moglie»

Di Eliana Mogorovich • Pubblicato il 05 Feb 2024
Copertina per Paolo Triestino porta Le gratitudini a Cormons, «il mio grazie va a mia moglie»

Adattato, diretto e interpretato da Paolo Triestino, lo spettacolo andrà in scena mercoledì sera dopo il positivo debutto al Mittelefest.

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Paolo Triestino ti accoglie con un saluto sincero ed entusiasta, una voce pacata, una persona che – se anche ha appena interrotto le prove – ti accoglie come ti conoscesse da sempre. L’unico dubbio, subito dissolto, è se la sua cordialità sia un dono di natura (siamo convinti sia così) o derivi dalla riflessione sulla sincerità di certi atteggiamenti umani come quella gratitudine al centro dello spettacolo che lo vedrà sul palcoscenico del Teatro comunale di Cormons. Prodotto da Artisti Associati, dopo aver debuttato all’ultima edizione del Mittelfest, "Le gratitudini" verrà infatti presentato mercoledì alle 21

Adattato, diretto e interpretato da Triestino, affiancato da Lucia Vasini, Lorenzo Lavia e Valentina Bartolo, lo spettacolo è completato dalla voce di Anna Gualdo (che interpreta Muriel), dalla scena di Francesco Montanaro (realizzata da Laboratorio Ferri Battuti di Paolo Bellina), i costumi di Lucrezia Farinella, le luci di Alessandro Nigro, le musiche originali di Massimiliano Gagliardi e i movimenti coreografici di Erika Puddu. Il testo racconta la storia di Michka, anziana ex correttrice di bozze, che per anni ha accudito Marie, figlia di una vicina di casa assente e problematica.

A un certo punto è però la donna ad avere bisogno di aiuto: perde le parole, proprio lei che con le parole ha convissuto da sempre. Incontrerà Jerome, appassionato ortofonista, che la accompagnerà nel suo percorso, reso più faticoso dal riaffiorare di un passato che, plasmato in forma di incubo, finirà per trasfigurare il direttore del reparto ospedaliero in cui viene ricoverata, interpretato proprio da Triestino.

Che cosa l’ha colpita del libro di Delphine De Vigan da cui è tratto lo spettacolo?
Non c’è una risposta precisa se non che mi ha letteralmente travolto. Conoscevo già l’autrice, molto nota in Francia e pubblicata in Italia da Einaudi. L’ho letto tutto d’un fiato e quando l’ho terminato sono rimasto fermo per un quarto d’ora: più che un tema o qualcosa di specifico mi è arrivata un’onda e scegliere di portarlo in scena è stato un tutt’uno. Ho avuto il tempo del covid per adattarlo, con il consenso dell’autrice: volevo provare a restituire e regalare al pubblico la stessa rasserenante e dolcissima emozione che avevo provato.

C’è un tema unico ce ne sono di più?
Il tema portante è quello della gratitudine: si parla dell’importanza di dirsi le cose quando è il momento, non bisogna tenersi dentro le parole che urgono per uscire. Una delle battute più belle è quella d’inizio: «Vi siete mai chiesti quante volte al giorno dite grazie? Grazie per il sale, per la porta, per l’informazione. Grazie per il resto, per il pane, per il pacchetto di sigarette. Grazie di cortesia, quasi vuoti. Grazie a te. Grazie di tutto. Grazie infinite. Grazie mille. Grazie professionali: grazie per la sua risposta, il suo interessamento, la sua collaborazione. Vi siete mai chiesti quante volte nella vita avete detto grazie sul serio?». In italiano non ci sono sinonimi: dici lo stesso “grazie” a che ti dà il resto e al medico che ti salva la vita.

Poi c’è la storia della correttrice di bozze, salvata dallo sterminio durante la Seconda Guerra mondiale e che cerca per tutta la vita le persone cui era stata affidata dalla madre per poterle ringraziare. C’è poi il tema del legame che intesse con una ragazza che per lei diventa quasi una figlia adottiva. Ma troviamo anche il tema dell’importanza di avere il tempo di dire ciò che si prova: un’altra battuta fondamentale è, alla fine, pronunciata dall’ortofonista che si proclama esasperato dal fatto che ci siano persone che se ne vanno per sempre senza prima avvisare.

Riguarda anche il tema della vecchiaia e dell’appassimento delle capacità: un argomento che ci riguarda perché tutti abbiamo avuto un genitore – io ho avuto mio padre – un parente, noi stessi in questa situazione. Si tratta di un tema importante, trattato dall’autrice e anche da me rifuggendo il pietismo e ogni facile lacrima: durante le prove ho sempre ammonito gli attori dicendo che non si sarebbero mai dovuti commuovere altrimenti lo spettacolo sarebbe stato intollerabile: loro sono meravigliosi, si sono lasciati guidare con fiducia e durante le prove si respira un clima di affetto. È uno spettacolo dolcemente emotivo, si sorride molto ma lascia anche una buona dose di tenera commozione.

Se ci sono, quali modifiche ha dovuto apportare al romanzo rispetto al testo teatrale?
Il più rilevante riguarda la figura del direttore dell’Rsa in cui è ricoverata la protagonista, che nel romanzo è una donna mentre a teatro è un uomo che interpreto io. Michka, colpita da afasia, lo rende protagonista di incubi che lo identificano con un generale nazista, lei ha paura di perdere il controllo di sé ed è terrorizzata da ciò che incarna quest’uomo, per lei simbolo della ferocia della vecchiaia.

Nello spettacolo c’è anche il tema dell’antisemitismo che, purtroppo, ha un risvolto molto attuale.
Si parla della Shoah ma non c’è alcun appiglio all’attualità: i riferimenti allo sterminio non hanno sfondo politico, sono finalizzati al racconto dell’infanzia della protagonista. Non c’è alcuna denuncia, solo un aspetto funzionale e descrittivo di ciò che è stato.

Nell’accelerato mondo contemporaneo, pronto a travolgere emozioni, ricordi, sentimenti, per cosa bisognerebbe essere grati?
Rispondere che si debba essere grati alla vita è banale, ognuno ha un grazie dentro di sé. Stamattina ho letto il post di un amico di trentadue anni, figlio di un attore, che è stato operato per un trapianto al cuore. Cinque anni fa, prima di subire un’operazione, gli avevo chiesto cosa avrebbe fatto quando fosse stato meglio: «Andrò alle Maldive». Ora che finalmente è stato trapiantato ha pubblicato appunto una foto delle Maldive e ha scritto grazie al medico che l’ha operato e al ragazzo che gli ha donato il cuore. Personalmente il mio grazie va a mia moglie, ai figli che abbiamo avuto insieme, ai tramonti, che sono la cosa più bella del mondo: quando ho cambiato casa mi sono assicurato che si potessero vedere nitidamente.

C’è un grazie che crede di non aver detto?
No, non credo. Ho altri rimpianti, magari per non aver chiesto scusa quando era il momento.

Qual è il feedback del pubblico? Ricorda qualche commento in particolare?
La gente spesso non riesce a parlare perché ha gli occhi pieni di lacrime. Gli applausi non finiscono, ci sono persone che invece di dire «bravi!» urlano «grazie!» ed è senz’altro uno dei grazie che contano.

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