il conflitto
Orrore senza fine a Gaza, il racconto di un'ex studentessa a Gorizia che vive in Israele
Laureata nel 2016 nella sede di via Alviano, la giovane si appresta a lavorare alla delegazione dell'Ue a Tel Aviv. La testimonianza.
Il fischio dei razzi ha un eco lungo più di 70 anni. Che sia mattino o sera, negli ultimi giorni il cielo tra Israele e Gaza è stato tagliato da oggetti destinati a esplodere il più lontano possibile, simboli del vortice di violenza in cui la regione è ricaduta. Tutto ciò è imploso davanti agli occhi di Samera Ayyad, 28enne con un passato a Gorizia, come tanti altri che oggi vivono e lavorano nell’ambito diplomatico e delle relazioni internazionali. La giovane, infatti, si è laureata tra le mura di via Alviano in Scienze internazionali e diplomatiche nel 2016, per poi trasferirsi a Londra per il master alla School of oriental and african studies (Soas).
Dopo aver terminato gli studi e aver lavorato un periodo a Barcellona all’Europe Institute of the Mediterranean, Ayyad inizierà a giugno una nuova esperienza alla delegazione dell'Unione europea a Tel Aviv. Lo farà in un Paese che sta rivivendo l’incubo dell’odio, sia verso l’esterno che tra i suoi confini. Il tema la riguarda in prima persona, essendo palestinese e cittadina israeliana. “Vedo ci sono delle conseguenze forti e violente anche all’interno dello Stato - ci racconta da casa sua a Nazaret -, per la prima volta vedo che i palestinesi che vivono qui si sentono molto uniti e collegati anche con la realtà in Cisgiordania. Tutto ciò dopo anni di discriminazione e razzismo”.
La componente araba della popolazione pesa per il 21% sul totale, mentre il 74% sono ebrei. Rapporti che vanno ben aldilà del concetto di “minoranza” come potrebbe essere intesa in Europa; la polveriera innescata dagli eventi tra Gerusalemme Est e la Spianata delle moschee durante il Ramadan ne sono la testimonianza. Lo scontro, infatti, attualmente non è solo tra Hamas e il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, ma è alimentato dentro il Paese da organizzazioni di estrema destra xenofobe e razziste. “Ci sono organizzazioni paramilitari come Lehava e La Familia, supportate e protette dalla polizia, che vorrebbero espellere i palestinesi e annettere la West Bank”.
Alcune di queste frange nascono peraltro dagli ultras delle squadre di calcio di Gerusalemme, ad esempio il Beitar Jerusalem. “Ci sono poi le milizie dei coloni. Ci sono stati vari scontri ad Haifa, con questi gruppi che attaccano i palestinesi, sapendo che le forze dell’ordine li proteggono”. Ayyad ha anche partecipato a delle manifestazioni pacifiche per chiedere la fine delle violenze, svoltesi senza incidenti nella sua città poiché abitata prevalentemente da arabi. Lì arriva solo la scia mediatica degli scontri. In ogni caso, il timore alleggia pesantemente nell’aria: “Sono qui da circa un mese e ora cerco di uscire il meno possibile, di non andare in centri israeliani”.
Secondo l’ex allieva gorizia, alla radici di questo ennesimo exploit c’è l’amministrazione dell’attuale capo di governo, la cui maggioranza non è mai stata così flebile come negli ultimi tempi. “Non è stato in grado di investire nella società palestinese né gestire le città miste. Così come ha fatto il suo ministro per la Pubblica sicurezza, Amir Ohana, che ha incitato alla violenza”. Proprio l’instabilità politica, che rischia di portare Israele alla quinta elezione in meno di due anni, sembra favorire proprio il partito di destra del premier, il Likud: “Dopo i fatti di Gerusalemme, l’attenzione si è spostata sui missili da Gaza. Sicuramente ne sarà avvantaggiato”.
Alla radice c'è l’ordine di sgombero, emanato dai giudici (ma poi bloccato dalla Corte suprema), per alcune case nel quartiere di Sheik Jarrah, nella parte est della città. Sette famiglie si sono ritrovate così senza un tetto, poiché secondo l’accusa vi abitavano abusivamente. Contemporaneamente, la polizia è entrata durante il Ramadan nella moschea di Al-Aqsa, una delle più sacre per l’Islam, sparando granate assordati e riempiendola di fumo. Tutto ciò ha portato Hamas, formazione islamista che controlla il Consiglio legislativo palestinese, a rispondere con la forza contro Israele. Da qui l’escalation a cui stiamo assistendo oggi.
Ora, il rischio più grande è che si ripeta un’offensiva terrestre israeliana contro la Striscia, come avvenuto nel 2014. Attualmente, seppur minacciata, questa non c'è stata e i 14mila riservisti richiamati rimangono in attesa, colpendo bersagli a distanza. Secondo i dati Ispi, dall’inizio delle ostilità tra i palestinesi si contano oltre 120 morti e più di 600 feriti. Sotto la bandiera di Davide, invece, il conflitto non è su base geografica ma a macchie di leopardo, concentrandosi soprattutto nelle città dove coabitano ebrei ed arabi. “In un centro qui vicino sono arrivati degli estremisti per attaccare i civili, mente in altri sono state lanciate molotov nelle case. Sono organizzazioni squadriste”.
A questo punto, quindi, quale potrà essere la conclusione? “Penso che la soluzione a due Stati non sia più praticabile ma solo quella a uno”. Inoltre, un peso non secondario ce l’hanno i partiti arabi: “Recentemente, la formazione di Mansour Abbas (Lista araba unita, ndr) ha teso la mano a Netanyahu per formare un governo”. In tutto questo scenario, la crisi sanitaria legata al coronavirus ha accentuato fratture già esistenti, ma ora ancora più marcate: “I Territori occupati sono stati sigillati in entrata e uscita durante la pandemia, mentre dalla Cisgiordania non è ancora possibile uscire senza permesso. Lì erano state create cliniche per aiutare contro il Covid, ma tutto è stato soppresso”.
Nella foto: bombardamenti su Gaza (Afp/Facebook)
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