il film
L'odissea tra mare e indipendenza di Jure, Šterk racconta l'uomo a Gorizia
Grande il lavoro di scavo interiore per quest’opera autobiografica costruita con un cast d’eccellenza, presentato ieri sera dal Kinoatelje al Kinemax.
L’ombra azzurra dell’infanzia. Quella che dovrebbe essere un’isola felice, ma che spesso si rivela un arcipelago di piccoli traumi. Durante la quarta serata della rassegna di cinema sloveno organizzata da Kinoatelje, è stato proiettato ieri – presso il Kinemax di Gorizia – il lungometraggio “Sterkiade” (in inglese “Lunatic”, 2023), del regista Igor Šterk. Una kermesse che proseguirà il 7 maggio con la proiezione di “Boogie rosso” di Karpo Godina, premiato con il Darko Bratina nel 2009.
Grande il lavoro di scavo interiore per quest’opera autobiografica costruita con un cast d’eccellenza, fra cui spicca la nota attrice Silva Čušin. «Fin da quando stavo scrivendo la sceneggiatura avevo in mente Čušin – ammette Šterk – Immaginavo soltanto lei, per il ruolo della madre». Mentre per il papà Jure non avrebbe potuto che scegliere Janez Škof, che ha «la stessa energia e felicità di vivere». Più ardua la scelta dell’attore adulto che avrebbe interpretato se stesso, sul quale ha invece riflettuto a lungo.
Significativo anche il sottotitolo “In giro per il mondo, passando per casa”, con l’intento di alludere fin dall’incipit alla straordinaria passione del padre per il mare, che lo calamiterà a sé fino all’ultimo respiro. Una didascalia in dissolvenza ci riporta al 1975, quando il sonno del piccolo Igor (Tito Novak) viene bruscamente interrotto dai battibecchi fra i suoi genitori. Suo padre Jure abbandona spesso la famiglia per inseguire il proprio sogno: solcare il mare con una semplice barca a vela.
Nella prima sequenza la macchina da presa fissa lo spiraglio di luce dal quale provengono i litigi, a simboleggiare lo sguardo disincantato di Igor, quell’angoscia che lo attanaglia quando i bisticci si tramutano in violenza fisica contro la madre Vojka. Il volto nascosto dalla cavità delle coperte – unico mezzo con cui difendersi dall’aggressività degli adulti - Igor rappresenta l’infanzia violata, annaspando senza scampo in un mondo perennemente precario. Ce lo spiega anche la successiva traversata a Pirano, dove la macchina da presa (e lo spettatore) è immersa nell’acqua, a inquadrare il bambino che nuota a fatica.
Il piccolo avanza verso il molo spronato dal padre - con la promessa di un gelato – ma la ricompensa più grande sarà l’imparare a stare a galla per cavarsela nella vita. Da una mamma che più che di cefalea soffre di gelosia e abbandono, e un papà che studia la mappa concentrato a realizzare la propria imbarcazione, Igor sembra volersi allontanare in punta di piedi, rivendicando una propria identità di fronte al nucleo familiare disintegrato. Il cestello della lavatrice gira frollando il bucato e gli stessi protagonisti, facendo affiorare quella schiuma d’incomunicabilità che è l’unico collante rimasto fra i tre.
Un film delicato, in grando di scandagliare gli animi e affondare nella memoria per recuperare anche i frammenti più dolorosi. Quei cocci rotti che il tempo ha travolto nel suo corso inarrestabile, dove le vicende individuali si intersecano a quelle collettive del 26 giugno del 1991. Con un abile salto temporale ci ritroviamo di fronte a un Igor ventitreenne (Jernej Gašperin), nel primo giorno di quella guerra che condurrà la Slovenia all’indipendenza. Mentre alla radio la voce fuori campo racconta delle barricate che si stanno organizzando, la macchina da presa indugia sui materiali accantonati da Jure in procinto di prendere il largo.
È la Storia, che entra a voce alta nella storia di una famiglia dispersa, in seno a un Paese in via di frammentazione. Una drammaticità lirica interrotta dai litigi venati di comicità, fra un padre pronto a sfidare le truppe jugoslave con la sua bandiera - o a urlare affacciato al balcone incurante dei bombardamenti - e un figlio maturo e posato, che accompagna la madre al rifugio antiaereo o chiede al padre di mettere via il kalashnikov poggiato sul tavolo durante il pranzo della domenica.
Forte valenza semantica ha la musica curata da Jura Ferina e Pavao Miholievic. Un tema evocativo, con cui le note suonate al piano da Igor accompagnano il ricordo di Jure che traversa l’Oceano Atlantico, creando una continuità temporale nel flusso d’immagini. A tre anni dalla guerra una vela solca il mare, rientrando trionfale a Pirano da dove era partita nell’agosto del 1991. Una voce fuori campo accoglie Jure come «il primo sloveno a circumnavigare il mondo in solitaria», con un’imbarcazione chiamata “Slovenia Indipendente”. Straordinario successo che – ancora una volta – interseca l’individualità alla coralità di un Paese ai suoi albori.
Jure si dimostra pronto a incoraggiare suo figlio, ma è presente a fasi alterne, così che i rapporti sembrano migliorare soltanto quando Igor sarà adulto e sperimenterà sulla propria pelle la potenza assoluta degli oceani. «Per un mese e mezzo abbiamo attraversato insieme il mare – confida Šterk – Lì ti rendi conto di quanto sia infinitamente piccolo l’uomo di fronte alla forza della Natura». Durante uno di questi momenti di confidenza e intimità fra un padre che torna a casa dopo tempo immemore e un figlio che l’ha potuto sentire solo al telefono, emerge tutta l’intensità di un rapporto che ormai si regge sulla distanza.
Il tema del viaggio – che sta anche a cuore al regista – è il fulcro della narrazione filmica. La distesa azzurra attrae Jure come l’oceano filmico affascina Igor ormai diventato uomo. Il navigare verso (come la pellicola che si svolge nel suo divenire) implica una profonda trasformazione interiore. Quella del ritrovarsi in mezzo al mare «cullato dal vento», nel buio assoluto della notte o in balia di «onde alte dieci metri» mentre il mare schiumeggia. Con le mani «tremanti, gonfie e piene di croste» che tentano disperatamente di reggere le corde per sopravvivere e pregare.
Questo saltuario ritorno a casa ricorda quello di un Ulisse partito per il mare alla ricerca di nuovi orizzonti. E tuttavia si tratta di un Odisseo incapace di mantenere la parola, pronto a lasciare tutto e salpare verso mete incerte, serbando in cuore la paura più grande. Quella di cadere in acqua, osservando impotenti la barca allontanarsi mentre «sai che la vita è finita». L’unica ancora di salvezza, oltre al proprio diario di viaggio attraverso cui lasciare le proprie memorie, è la fede. «Puoi partire e navigare per il mondo da ateo, ma al ritorno non sarai più lo stesso», spiegherà Jure al figlio.
Di Jure Šterk verranno rinvenuti soltanto alcuni oggetti, inviati a casa dentro un pacco proveniente da Canberra. Fra questi, il diario della sua ultima avventura, che il regista sceglierà di pubblicare attraverso il volume “Diario dell’ultimo viaggio”. «Nessuno sa quanto sia terribile morire soli», sentenzia Igor di fronte alle parole di circostanza dell’impiegata che gli rende il pacco. Rachmaninov chiude il tragico epilogo, mentre scorrono le foto del padre del regista a bordo dell’imbarcazione “Lunatic” e la tristezza si stempera in nostalgia.
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