IL RICONOSCIMENTO
A Nicholas Philibert il Premio Bratina: «Basaglia una figura importante»
Nella Giornata Mondiale della Salute mentale, il riconoscimento alla pellicola incentrata sulla psichiatria.
La Senna scorre, portando con sé nelle sue acque torbide foglie secche e storie dimenticate, che non potranno mai più tornare a galla. Sull’Adamant queste storie prendono vita, fra le note della chitarra e un piatto caldo: un luogo in cui gli emarginati sono innanzitutto «persone, prima che malati». Si è svolta nella mattinata di ieri – presso il Palazzo del cinema di Gorizia – la premiazione del 25° festival transfrontaliero “Omaggio a una visione”. Un premio assegnato al documentario “Sul’’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile” (2023) del francese Nicolas Philibert, in concomitanza con la Giornata mondiale della salute mentale. La statuetta è stata consegnata al regista dalle mani di Majda Bratina al termine della masterclass con l’autore, nella cornice della stessa città che a lungo accolse lo psichiatra e neurologo Franco Basaglia, per il quale quest’anno si celebra il centenario della nascita.
«Non mi reputo un maestro – ammette Philibert durante la masterclass svoltasi al Kinemax – Mi occupo di cinema per comprendere la complessità del mondo». Orso d’oro alla 73ma edizione della Berlinale, in Francia la pellicola ha fatto registrare due milioni di spettatori, dando parola ai malati mentali secondo l’ideologia basagliana di considerare i malati “persone” con i medesimi diritti. «L’Adamant è un centro psichiatrico molto singolare – specifica – Un ospedale sulla Senna che non è un battello, ma una struttura flottante». Un luogo luminoso, in cui le finestre lasciano trapelare tutta la luce abbagliante dell’acqua che scorre insieme alle immagini e alle parole dei protagonisti.
«L’Adamant è un centro effervescente, aperto al mondo, un vero e proprio luogo di accoglienza e ospitalità», spiega. Sorta di “bateau ivre” come metafora dell’esistenza, in cui nessuno è perfetto e tutto può accadere. «La psichiatria è stata devastata, in Francia e nel mondo. Spesso ridotta solo a numeri e schemi finanziari dove gli esclusi sono percepiti come una minaccia». Un film in cui «il soggetto è secondario», perché «è possibile realizzare un film magnifico anche partendo da un soggetto banale», nel quale Philibert affronta grandi tematiche con tatto e delicatezza.
«In francese si dice “vivere insieme”. La mia non è militanza, ma un impegno politico nel senso di “vivere assieme”. E citando il regista e critico cinematografico Jean Louis Comolli, ha sottolineato come «la vera dimensione politica del cinema è far sì che, fra lo schermo e la sala, la dignità degli uni sia riconosciuta dagli altri». Spetta al pubblico in sala elevare i malati a persone con dignità e diritti. Un impegno che si riflette ne “La Maison de la Radio” (2012), incentrato su una radio libera, «luogo essenziale in democrazia», che oltrepassa quel «trionfo di volgarità e pornografia» che rappresenta la televisione contemporanea.
In questo senso, “Sur l’Adamant” è un condensato di umanità in cui i protagonisti – i pazienti della chiatta galleggiante – hanno la libertà di guardare nella macchina da presa interrogando lo stesso regista. Così accade a Murielle, che si rivolge in camera per domandare se il regista abbia un’automobile per trasportare l’attrezzatura. «Sono lì per incontrare un luogo, delle persone, una parte di mondo – racconta - Non sono un giornalista, non cerco lo scoop, né di convincere qualcuno, quanto piuttosto di riflettere insieme agli altri, attraverso scene completamente inattese». La mancanza di pressioni da parte dei produttori consente a Philibert quel margine di libertà temporale per riprendere gli ospiti del battello in tutta la loro interezza. Una sincerità che lo avvicina al neorealismo, dove – citando il padre dei Cahiers du Cinéma André Bazin – «Rossellini non fa recitare i suoi attori, li costringe solo a essere in una certa maniera di fronte alla macchina da presa»
Sull’Adamant i protagonisti non sono dunque attori, ma persone a tutto tondo con i propri deliri «bloccati nella testa» e con un tempo interiore che si riversa interamente nella pellicola. «Il cinema, ontologicamente, è un resistere al visibile, perché tra una scena e l’altra c’è sempre qualcosa che non ho mostrato. Bisogna che lo spettatore lavori un po’. Non faccio film per istruire lo spettatore, ma per consentirgli di comprendere chi siamo e il mondo in cui viviamo. Il mio lavoro consiste nel prendere per mano lo spettatore e mostrargli qualcosa d’interessante», rimarca.
Di grande empatia e umanità è anche il documentario “Nénette” (2010), storia di un’anziana femmina di orango ospite al Jardin des Plantes di Parigi. «Siamo una specie molto particolare – prosegue il regista – Maltrattiamo gli animali nel nostro mondo industrializzato, spesso portandoli all’estinzione. Alcuni di loro sono incredibilmente dotati di empatia e linguaggio, e persino gli insetti provano emozioni. Oggi è nel mondo animale che dobbiamo ritrovare noi stessi, chiamati a responsabilizzarci e interrogarci su questioni fondamentali. Flaubert dice “Madame Bovary sono io”. Di questo film possiamo dire “Nénette sono io, siamo noi, in un certo senso”».
Allo stesso modo per l’Adamant, dove i pazienti vanno avanti mettendosi “nei panni di un altro, pensando di farcela così”. «È stata Linda – compagna e psichiatra - a farmi conoscere questa realtà. Mentre studiavo, ho iniziato a interessarmi alla psichiatria e Basaglia ha rappresentato per me una parte importante per la comprensione del mondo. Oggi si celebra la giornata mondiale della Salute mentale, mentre la Francia ha dichiarato il 2025 anno della Salute mentale. Viaggiando durante la distribuzione del film, mi sono reso conto che la psichiatria è in uno stato vergognoso. Per questo motivo dobbiamo prenderci cura di chi soffre. Lasciarli essere ciò che sono, accogliendo la loro differenza e singolarità come aveva fatto Basaglia».
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