a gorizia
La memoria degli sloveni, il viaggio nelle violenze nei campi fascisti a èStoria
Con l’impegno di svolgere nel prossimo anno un’edizione transfrontaliera dell'evento, si è discusso delle violenze fasciste sui civili sloveni in queste terre.
«”Italiani brava gente” – sottolinea ironicamente Alessandra Kersevan – Questo mito tendeva a considerare con bonarietà l’esercito italiano, rispetto a quello tedesco considerato più aggressivo. Ma storicamente l’esercito italiano si è macchiato di enormi misfatti, come nell’eccidio vicino a Fiume, dove furono fucilati 100 uomini». La tavola rotonda si è svolta oeri pomeriggio presso la sala Dora Bassi nell’ambito di èStoria a Gorizia, e ha visto protagoniste – oltre a Kersevan – Urška Strle, Petra Svoljšak e Marta Verginella, che hanno dialogato nell’incontro intitolato “La memoria degli sloveni dei campi fascisti italiani”.
Con l’impegno di svolgere nel prossimo anno un’edizione transfrontaliera in occasione della Capitale della cultura, si è poi approfondito il libro uscito solo in sloveno “Vendetta offesa – La memoria degli sloveni dei campi fascisti italiani” di Marta Verginella. Un testo che «a gennaio uscirà in italiano con la casa editrice Donzelli», e che «si sta lavorando per tradurlo anche in inglese e tedesco», sottolinea Verginella. Il libro prende le mosse dalle ragioni dell’internamento nei campi fascisti. «La nazionalizzazione della società inizia già dopo il 1867».
Cruciale sarà il periodo successivo al 1918, quando «cominciano le espulsioni e le violenze che si intensificheranno durante il periodo fascista». I primi internamenti iniziano sin da metà degli anni Venti già nell’area del tolminese. Un fascismo che «va al di là del Friuli Venezia Giulia» e che si palesa «con il colonialismo e la violenza italiana in Libia», incrociandosi con «le politiche di occupazione dell’area di Lubiana». Qui le truppe italiane entreranno «con grandi programmi, sperando nel consenso della popolazione». Spesso a essere colpiti sono proprio i migranti partiti da Gorizia, poi raggiunti a Lubiana dai fascisti per venire internati. «Sono per lo più persone che hanno lasciato la regione».
Qui «le politiche di repressione degli anni Venti o Trenta s’incrociano con il movimento di liberazione sloveno». Interi villaggi saranno internati, per essere inviati nelle Marche o in Umbria. «Con un certo senso di ovvietà si parla di due pratiche della memoria – interviene Petra Svoljšak, moderando la tavola rotonda – Qual è la situazione della memoria collettiva italiana?», domanda a Kersevan, raccontando poi l’aneddoto di quando anni addietro si recò a Gonars alla ricerca del monumento ai caduti. «Non posso dimenticare quando cercando il monumento e domandando ai locali, incrociai solo sguardi stupiti».
Secondo Kersevan «la memoria dei campi fascisti esiste forse di recente. Nel ’46 c’era stato il libro di Giuseppe Piemontese, che aveva documentato anche attraverso la fotografia l’invasione fascista». Ancora nel ’78 viene pubblicata una traduzione in italiano del libro di Frank Potočnick sull’isola di Arbe, poi «per molti anni non c’è stato più nulla fino agli anni ‘90», quando viene pubblicato “La vita quotidiana di un campo di concentramento fascista. Ribelli sloveni nel querceto di Renicci-Anghiari” di Daniele Finzi, in cui file di uomini laceri lasciano la stazione di Anghiari - teatro dell’omonima battaglia dipinta da Leonardo, andata persa – per essere internati nel campo.
«Poi c’è il mio libro del 2003, sul campo di Gonars – aggiunge – I campi come li immaginiamo, col filo spinato o i fari sono stati quattordici, gestiti dall’allora Ministero della guerra. Nel resto dell’Italia c’erano campi più piccoli con una decina d’internati, gestiti dal Ministero degli interni. Da Gonars sono passati 6500 internati, poi spostati da un luogo all’altro. In Italia si sono verificati molti episodi di censura. Bisognava parlare dell’aggressione alla Jugoslavia, e si preferiva non farlo».
Nel 1993 la Rai acquista dalla Bbc il documentario “Fascist legacy” di Michael Palumbo e Ken Kirby, riguardante anche i crimini di guerra commessi dall’esercito italiano. «Venne acquistato dalla Rai, tradotto e doppiato e mai trasmesso. Il popolo italiano avrebbe potuto conoscerlo, se fosse stato proiettato in prima serata. Nel ’93 ci fu un accordo tra il governo italiano e quello sloveno», per creare una commissione che prendesse in esame le relazioni fra i due, dal 1880 al 1956.
«L’impegno da parte del governo era pubblicare una relazione in italiano, sloveno e inglese, e adottarla come base per i rapporti futuri. Il governo sloveno ha ottemperato ai suoi obblighi, mentre lo stato italiano non lo ha mai pubblicato, se non sul quotidiano Il Piccolo. Il governo italiano non ha fatto propria questa relazione, per poi istituire il Giorno del ricordo del 10 febbraio, dimenticando i campi di concentramento fascisti».
Dal canto suo, Urška Strle racconta come da parte slovena la memoria si trasformò in «varie forme di opere d’arte», come nel libro “Sognando la libertà – storie di sovversivi e ribelli”. Grande peso hanno le donne, che stilano opere di riflessione autobiografica. Nell’ambito storiografico regnò il silenzio fino agli anni Novanta, quando viene pubblicato il libro di Tone Ferenc su Arbe. La stessa Verginella lamenta l’assenza di una storiografia sulla memoria della deportazione. In Italia i campi d’internamento erano «spesso organizzati in ville disabitate, ospitando 30-40 persone».
Oltretutto non tutti i campi erano organizzati come Gonars, Arbe o Visco, «c’erano piccoli campi di accoglienza». Alcuni internati probabilmente preferivano dimenticare il proprio passato, ma «le varie forme di oblio venivano attenuate grazie alla politica della memoria. Chi non ricordava veniva sollecitato a farlo». Secondo Kersevan «non c’è stata consapevolezza di responsabilità dei crimini compiuti dall’esercito italiano. Fin dal dopoguerra, in Italia la persecuzione è stata raccontata con qualche libro, come quello di Carlo Levi sul confino, o qualche film – come “La villeggiatura”. Ma manca il punto di vista dei persecutori».
Oggi a Gonars è stato innalzato il monumento ai resti di 473 sloveni - di cui 71 bambini con meno di un anno - che persero la vita nel campo. Pavese scrisse i suoi versi più lievi, al confino, mentre l’amico Leone Ginzburg trovò la morte in carcere, e con lui molti altri. Il neorealismo italiano non fu soltanto una corrente artistico-letteraria e cinematografica, ma innanzitutto un’ideologia in contrapposizione al regime, che si sviluppò anche a guerra finita come rivincita di una generazione. Uomini e donne che hanno lottato per la libertà senza condizioni, quella che innalza vivi e morti a creature umane con un’unica patria.
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