La mafia raccontata da chi la combatte a Ronchi, «non basta denunciare»

La mafia raccontata da chi la combatte a Ronchi, «non basta denunciare»

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La mafia raccontata da chi la combatte a Ronchi, «non basta denunciare»

Di Daniele Tibaldi • Pubblicato il 17 Giu 2023
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Gaetano Saffioti, l’imprenditore che svolse il ruolo di testimone chiave nell’operazione Tallone d’Achille, è stato ospite agli incontri del Festival.

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«In Calabria abbiamo la ndrangheta, questo è noto, ma siete voi che dovete preoccuparvi: qui c’è di tutto, dai camorristi ai nigeriani». Sono parole, queste, che hanno un certo peso, perché pronunciate da Gaetano Saffioti, uno che sa di cosa parla. Saffioti, infatti, è l’imprenditore che svolse il ruolo di testimone chiave nell’operazione Tallone d’Achille, grazie alla quale, nel 2002, finirono in carcere 48 persone, tra boss, gregari e persone legate ai più potenti clan della provincia di Reggio Calabria.

Il suo avvertimento – lanciato da Ronchi dei Legionari durante uno degli incontri organizzati per il Festival del giornalismo – è legato al fatto che «le mafie, oggi, sono attratte soprattutto dai luoghi in cui operano grandi industrie, specialmente dove ci sono porti importanti e attorno a cui si muovono grandi capitali». Il riferimento, neanche troppo implicito, è all’area tra Trieste e Monfalcone, con la presenza di Fincantieri. «Quando sai che un certo bar o un’attività commerciale sono vicini al mondo corrotto o mafioso, si deve avere la forza di scegliere: non basta la denuncia, bisogna scegliere di non andarci».

Ha continuato sempre Saffioti: «Quei locali svolgono la funzione di lavatrici. Per esempio, su duecento clienti effettivi in un centro commerciale, monitorati nel corso di una giornata, ai controlli sono risultati duemila scontrini. Bisogna rinunciare a un vantaggio immediato per poter ottenere un beneficio collettivo domani». Non c’è niente di più sbagliato, infatti, del motto “fatti i fatti tuoi e camperai cent’anni”. E per spiegarlo, l’imprenditore ha raccontato la storia di un triestino, che lavorava come insegnante in Calabria e che un giorno, dal terrazzo di casa assistette all’interramento di rifiuti speciali in un terreno adiacente.

Preferì non denunciare, e poco più tardi fu trasferito nuovamente a Trieste. Negli anni successivi, su quel terreno fu piantato un aranceto. «Nel corso di una delle mie conferenze, questo triestino mi fermò un giorno in lacrime». Suo figlio, infatti, che era andato a studiare a Bologna, divenne amico di un altro giovane calabrese, e quest’ultimo gli portò in regalo una cassa di arance, come da tradizione. Ma poco tempo dopo, il figlio si ammalò di cancro e muore: «Sa, Soffiati, ha proprio ragione. Se non avessi taciuto allora, il mio ragazzo sarebbe ancora vivo».

All’appello dell’imprenditore calabrese si è unito don Pino Demasi, referente di Libera nella Piana di Gioia Tauro: «La corruzione regna dovunque, soprattutto dove circola di più denaro; le mafie sono nate al Sud, ma agiscono qui, dove c'è ricchezza. Se vogliamo sconfiggerle, bisogna risolvere un problema culturale». Secondo il gesuita, infatti, «il modello prevalente tra i nostri ragazzi è quello del “berlusconismo”: fatto di ruberie, corruzione, vendita e svendita del proprio corpo». Sia don Demasi che Saffioti hanno voluto rimarcare non solo la propria scelta di campo, contro le mafie, ma anche la «scelta di voler rimanere in Calabria.

«Anche in Calabria si può rimanere da protagonisti», ha dichiarato l’esponente di Libera, che vanta tra i risultati ottenuti l’importante modifica alla normativa sulle confische. «Ora finalmente possiamo far gestire terreni e proprietà confiscati alle mafie da delle cooperative capaci produrre prodotti di qualità nel rispetto della legge», un aspetto non indifferente in un territorio tristemente noto per lo sfruttamento dei lavoratori in nero, che raggiunse l’apice con la rivolta degli immigrati contro la violenza della ndrangheta, dei caporali e degli imprenditori fuorilegge a Rosarno, nel 2010.

Non sono mancate le polemiche anche contro le riforme della giustizia portate avanti dal guardasigilli Carlo Nordio. Secondo il moderatore dell’incontro, il giornalista del Fatto quotidiano Lucio Musolino, infatti: «Se a noi – la stampa – mettono il bavaglio, a voi tappano le orecchie». Un monito che prende di mira, in primo luogo, la stretta sulle intercettazioni. Ma non solo. Aspra la critica anche contro la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio e la limitazione del traffico d’influenze, tutte fattispecie che il procuratore Nicola Gratteri definisce come «reati spia: cioè reati grazie alle cui indagini è possibile scoprire legami tra soggetti e la ndrangheta».

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