Il maestro della fotografia Spinotti a Staranzano, «sto conoscendo il Friuli»

Il maestro della fotografia Spinotti a Staranzano, «sto conoscendo il Friuli»

l'intervista

Il maestro della fotografia Spinotti a Staranzano, «sto conoscendo il Friuli»

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 18 Gen 2024
Copertina per Il maestro della fotografia Spinotti a Staranzano, «sto conoscendo il Friuli»

Il celebre direttore della fotografia cha ha lavorato con Olmi e Tornatore sarà ospite venerdì del Gruppo Area di Ricerca DobiaLab, il racconto del suo cinema.

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Dal surrealismo grottesco e a tratti violento di Sergio Citti, alla narrazione corale di Ermanno Olmi o Tornatore, al trionfo del cinema Hollywoodiano, la sua è una carriera costellata di premi e riconoscimenti. Un percorso lungo, difficile, che ha visto il direttore della fotografia Dante Spinotti al fianco di quell’umanità varia impegnata a scrivere la storia del cinema italiana e statunitense. L’artista aprirà venerdì 19 gennaio il nuovo ciclo di "Cinematic tales: attraverso l’obiettivo" a Staranzano, in sala Delbianco alle 18.30.

Il tutto è organizzato dal Gruppo Area di Ricerca DobiaLab. Una filmografia strepitosa, quella di Spinotti, che annovera due candidature al premio Oscar – per “L.A. Confidential” e “Insider” – un premio Bafta per “L’ultimo dei Mohicani” e una candidatura per “L.A. Confidential”, tre ciak d’oro aggiudicati in Italia. Lo abbiamo raggiunto al telefono nella sua casa presso Ovaro, mentre il 15 febbraio raggiungerà Gorizia per l’anteprima del premio “Sergio Amidei”.

Qual è il ruolo del direttore di fotografia?
Noi studiamo il linguaggio del film, come raccontarlo in mille modi diversi. Uno studio pertinente alla storia, realizzato assieme al regista, che si sviluppa attraverso il sopralluogo, i provini degli attori, i costumi, l’illuminazione. La luce racconta il film con la macchina da presa. Alcuni registi sono molto tecnici e precisi, altri si affidano a noi chiedendoci di capire come si svolgerà la narrazione – se in maniera sperimentale, con la macchina a spalla, campi lunghi, e così via – Quando un regista ci chiama ha già in mente la storia, quindi bisogna approfondire insieme, coordinandosi anche con scenografi e costumisti. Noi firmiamo il “look” del film, l’aspetto visivo. Ai tempi della pellicola avevamo anche la responsabilità di controllare il giorno successivo che tutto funzionasse. Oggi si gira in digitale ed è possibile controllare sul momento il risultato.

Quanto viene girato negli Studios e quanto fuori?
È in realtà differente per ogni film. Nel caso della Marvel in genere sono interamente ricostruiti, girando spesso solo su schermi verdi. Altri con budget inferiori cercano di utilizzare i fondali preesistenti, con set esterni o interni, affittando locali o ricostruendo in teatro di posa. Non esistono regole predefinite.

Lei ha lavorato con Citti, Salvatores, De Crescenzo, Cavani… Com’è stato lavorare con Olmi?
Con Ermanno mi sono incontrato quand’ero ragazzo, di ritorno dall’Africa. Me lo presentò Mario Rigoni Stern, che era parente di mio cognato e anche mio amico. Poi lui mi chiamò per le riprese di “E venne un uomo” nel 1965, su Papa Roncalli. Io giravo con Ermanno e la macchina da presa nel baule. Andavamo in giro per due o tre settimane con una piccola troupe milanese. Mi ospitava sulla sua Citroën DS, ogni tanto si cantava qualche canzone di montagna. Poi non potei proseguire, per andare in servizio militare. Mi richiamò più avanti, per “La leggende del santo bevitore” (vincitore del Ciak d’oro, ndr) e poi un altro girato a Cortina d’Ampezzo, “Il segreto del bosco vecchio”. Olmi è uno dei grandi maestri del film italiano, il suo è un cinema basato sulla semplicità, sugli sguardi. “La leggenda” fu un’esperienza emozionante, girato più di trent’anni fa a Parigi, con Rutger Hauer.

Perché si è spostato a Los Angeles? Ci sono più opportunità di lavoro, rispetto all’Italia?
Los Angeles è il centro del cinema mondiale. Una volta ero su un set esterno. Per una questione di controlli e ordine pubblico a Los Angeles ci sono sempre i poliziotti, quando si lavora in esterno. Di solito ci si ferma a far due chiacchiere. Ho avuto modo di parlare di cinema con uno di loro. Gli chiedevo se avesse visto quel film, in tutta risposta mi disse che aveva notato problemi di sceneggiatura.

Per dire, si lavora in una città enorme dove c’è ogni tipo di mestiere, ma sostanzialmente è là che ci si confronta, è là che ci sono i più grandi registi, scenografi, o le produzioni più importanti. Il sogno di lavorare a Hollywood è come quello del calciatore che aspira a entrare in serie A. Questo non significa che in Italia non ci siano buoni film. In Italia sono tornato più volte, lavorando con Tornatore, Benigni. Però a Hollywood incontri persone straordinarie. Si fa più fatica, perché si tratta di una società maggiormente competitiva in cui si lavora di più. È un’organizzazione stretta di produzione, dove i costi sono più alti e con troupe ampie, con le quali non si può improvvisare, per non trovare ostacoli in produzione.

Sua moglie è italiana?
Sì, ci siamo conosciuti sul set di un film ambientato a Venezia, “La disubbidienza”, un film tratto dal romanzo di Moravia. Lei lavorava al teatro Goldoni, dirigeva la produzione. Era il mio secondo film da libero professionista, per la regia di Aldo Lado, con Stefania Sandrelli, Jacques Perrin, Nanni Loi. Verrà anche lei, a Staranzano. A Ronchi ho girato per la Rai un documentario sulle trincee del ’15-’18, con Piero Nelli, sul monte Sopra Selz. Cinque puntate che mostrano soldati, fumi, esplosioni. È un mestiere faticoso ma divertente, che cambia continuamente insieme alle persone, mai noioso.

Il Friuli Venezia Giulia è una delle regioni d’Italia più ricche in biodiversità. Come appare, ai suoi occhi, rispetto agli Stati Uniti?
Io sono nato qui, ho una casa di famiglia, mio padre la ereditò da uno zio. Il Friuli l’ho conosciuto lentamente. Conosco abbastanza bene la Carnia, vi ho girato due documentari, uno nel 2013 e uno quarant’anni fa, “La Carnia tace” e “Inchiesta in Carnia”. Amo Udine, sono tifoso dell’Udinese da quand’ero bambino, ma non conosco il Friuli in maniera profonda.

Da direttore di fotografia, usa la macchina fotografica a pellicola oppure quella digitale?
Sicuramente digitale. Ho avuto la camera oscura per tutta la vita, ma la tecnologia è andata talmente avanti che potrei fare un film di John Ford con una macchina fotografica di quelle attuali. Per quelle di una volta, per esempio le Mitchell, servivano tre persone, per spostarle. Oggi si ottiene una qualità digitale di altissimo livello, che cambierà di molto il linguaggio cinematografico. Tra il 2021 e il 2022 ho girato “Posso entrare? Un’ode a Napoli” per la regia di Trudie Styler, mia amica e moglie di Sting. Proiettato due o tre settimane fa al Visionario di Udine, l’ho girato con la mia macchina personale Leica, cosa che una volta era impensabile.

Come ha vissuto il passaggio dalla pellicola al digitale? L’intelligenza artificiale avrà un suo ruolo anche nel cinema?
Sicuramente, soprattutto per ragioni di distribuzione. Ecco perché c’è stato uno sciopero degli attori e degli scrittori, a Hollywood. Per esempio, la Sony ha un dispositivo di messa a fuoco autonoma gestita dall’intelligenza artificiale. Poi, oggi i film vengono distribuiti in streaming. Il volto dell’attore può essere sfruttato in tutto il mondo. Attori, scrittori e tutta l’industria sono solidali, vogliono dividere la grossa fetta di guadagno. Gli scioperi negli Stati Uniti durano a lungo, finché qualcuno cede, e questo porta disoccupazione.

Il passaggio dal digitale alla pellicola è stato importante e controverso. Perché ha avvicinato il cinema alle altre arti. Oggi possiamo vedere ciò che si sta riprendendo, prima non era possibile. Il cinema si è avvicinato alla musica, che può essere composta e rifatta, o alla pittura, dove si può modificare il colore. Non semplifica, perché il racconto non ha a che fare né con la tecnologia né con l’intelligenza artificiale, deriva dal cervello e dall’animo umano.

Si stanno studiando nuove tecnologie, che immergano lo spettatore nel film? Penso ai visori, ai film in 3D.
Sì, ci sono macchine da presa a 360°, sia orizzontali che verticali. Ma la vecchia sala mantiene la sua vitalità, con incassi rimarchevoli, perché vedere il film in sala è sempre spettacolare. Si possono prevedere tutta una serie di sviluppi tecnologici. Il 3D non ha funzionato granché. Piuttosto i visori, con il suono stereofonico, possono essere interessanti. A Udine hanno proiettato al Visionario “Manhunter” e “Posso entrare?”, la gente era comodamente seduta in poltrona ad assistere numerosa.

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