L'ombra di Napoleone nel racconto di Aldo Gallas, quando Medea conobbe la Francia

L'ombra di Napoleone nel racconto di Aldo Gallas, quando Medea conobbe la Francia

la recensione

L'ombra di Napoleone nel racconto di Aldo Gallas, quando Medea conobbe la Francia

Di Ferruccio Tassin • Pubblicato il 08 Mag 2021
Copertina per L'ombra di Napoleone nel racconto di Aldo Gallas, quando Medea conobbe la Francia

La campagna d'Italia di Napoleone segnò la storia di queste terre. Il racconto di quei momenti in un prezioso volume.

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L’idea del libro è nata a Romans nel cenacolo letterario del “Leon d’Oro”, in una tarda mattinata di un mercoledì del 2015. Germano Pupin aveva raccontato di un testo sui Francesi a Medea, lasciato dal maestro Aldo Gallas; la signora Vanda gli aveva chiesto se si poteva pubblicare. Me lo fecero vedere, e accettai di leggerlo solo perché mi ero già occupato del periodo, per una ricerca in occasione di un congresso a Vicenza. Mi parve di capire che il maestro forse, aveva l’intenzione di ampliare gli orizzonti; cominciai a lavorarvi per alcuni mesi, finché mi sembrò che il lavoro fosse bilanciato e avesse ampliato gli orizzonti.

Si capiva che il maestro intendeva offrire qualcosa che fosse comprensibile a tutti. Il tono era didattico, c’era anche un glossarietto per le parole difficili. C’era un’altra caratteristica (ho cercato di mantenerla): qua e là, dove le circostanze lo consentivano, si avvertiva un tono di sottile ironia. Nel 1997, bicentenario del Trattato di Campoformido, il maestro aveva stampato un ciclostilato, dove citava un paio di passi del mio saggio. C’erano tutte le premesse per un lavoro “insieme”: negli anni, avevo conosciuto chi fosse Aldo Gallas: i suoi interessi storici, sociali; il carattere riflessivo; le sue parole mai sparate…

Si dice spesso: “Ah i maestri di una volta…!”, sottintendendo la seconda parte, “…che non ci sono più!”. L’arco temporale di questo libro va dal 1797 e il 1813: inizio e fine del rapporto Francesi-Contea di Gorizia. In mezzo, un andirivieni di eserciti: “Te Deum” per questi o per quelli, tanto che, per uno sbagliato, l’arcivescovo di Udine Baldassarre Rasponi, rischiò la fucilazione (salvato dal viceré Eugenio), e il parroco di Gradisca, bar. Sigfrido Baselli diede uno stop ai “Te Deum”, perché la situazione era talmente confusa che non si sapeva come le cose potessero mutare da un momento all’altro! Periodo terrificante per le nostre genti: ruberie, requisizioni, violenze...

Gli eserciti si mantenevano nei luoghi di passaggio, oppure occupati. Migliaia di cavalli da nutrire, bestiame (grosso o minuto) requisito per diventare cibo, ma non bastava, lo si requisiva per i trasporti… Taglio di legna; requisizioni di case e di carri… Le nostre terre ne rimasero annichilite per anni e anni (subito dopo, viene il 1816 e il 1817, “l’an da fan”!). Con le cantine, i Francesi avevano una consuetudine come le sanguisughe e i vampiri col sangue. Bere, sfasciare, lasciar correre il vino… Non che gli altri fossero da meno: i soldati di casa si comportavano nella stessa maniera: quando la Curia di Gorizia chiese a Giuseppe Slokar, cappellano a Lokavizza perché non risiedesse in canonica, si sentì rispondere “Deserui autem domum canonicam die 23 Martii, qua Galli districtum Vippacensem invaserunt".

"Occasionem deserendi...dederunt milites austriaci dicti Ullani, qui ad me venientes comederunt et biberunt…. Hanc austriacorum militum agendi rationem considerans sic meum animum ratiocinabam: si haec faciunt austriaci, quid non faciant Galli?”.
  Poi ci fu tanta “brava gente”, del paese, che, approfittando dei momenti caotici, alleggeriva le case dei ricchi: successe a Fratta, una specie di esproprio proletario nelle villa degli Strassoldo, ora Casa Bader. La vita di allora era imperniata sulla capillare presenza del clero nelle campagne. Al loro arrivo, anzi, ancora prima, i francesi erano percepiti poco men che diavoli: giungevano gli echi della rivoluzione e arrivavano gli esuli.

Arrivavano dei nobili e, dopo la Costituzione civile del clero (1790), il cosiddetto “clero refrattario”, che si era rifiutato di giurare. I Francesi mostrarono buona capacita organizzativa (prefetture); ottime le loro relazioni economiche, con l’ausilio della statistica; portarono il sistema metrico decimale; la dichiarazione dei Diritti dell’uomo, sul modello americano; teoricamente la laicità dello stato, la fine del feudalesimo; continuarono le vaccinazioni. Tentarono di organizzare capillarmente la scuola coll’ aiuto del clero…che resisteva, perché questi strani ospiti avevano un vizio di fondo: portavano via di tutto; pesavano, rilasciavano ricevute, ma portavano via; furono anche costretti a lisciare il clero, che aveva in mano la gente

Danni esagerati: confini che mutano; mutare di diocesi; ordini religiosi soppressi. Pian piano, si arriva a prendere il buono, a convivere in maniere pacifica. Medea aveva una importante funzione: aveva la Mont, già madre di case e chiese da secoli, e anche di Palmanova in parte, sia coi Veneti che coi Francesi.  A proposito di ruberie: mons. Mauro Belletti, allora parroco a Medea, mi aveva mostrato un ostensorio con data 1814: pensai subito ad una riparazione alle ruberie francesi, ne avevo quasi la certezza; ma sono andato nell’archivio parrocchiale a verificare, e ho notato che era stato rubato da ladroni nostrani, che il mestiere già lo conoscevano, appreso nelle nostre contrade!

Il libro riporta la grande politica, in sintesi, e il tessuto connettivo della vita quotidiana. Prendiamo l’arrivo qui: non fu una passeggiata: tra il 19 e il 21 marzo 1797, Napoleone raggiunge Gorizia. La divisione Bernadotte, superati i primi trinceramenti nemici, si spinge fin sotto le mura di Gradisca, mentre Serurier, occupate le vicine alture, minaccia la città di bombardamento ed incendio.  Presa fra due fuochi, la guarnigione capitola. Gradisca, 3000 prigionieri - il fiore dell’armata dell’Arciduca Carlo - 10 cannoni, 8 bandiere, in mano a Buonaparte, che lascia sul campo 1500 morti, fra i quali 30 ufficiali e 1 generale.

Si parla dei soldati di Napoleone, anche rimasti qui, e di quelli che, dei nostri paesi, tendevano a schivare la guerra; di sacerdoti che vogliono conoscere il Generale Corso, e di altri che ci rimettono, come don Giuseppe Gerini, di Villesse, confinato in un convento a Udine, per aver fomentato una rivolta; o don Mattia Cumer di Caporetto, i cui guai cominciano proprio il giorno della prima messa! Nel 1797, a Moraro (il 19 marzo), gli invasori spaccarono la cassa della Chiesa; al vicario Domenico Rivolti sottrassero 32 conzi di vino (una ventina di ettolitri) e a quello di San Lorenzo di Mossa sciuparono guardaroba, cantina e dispensa: un mantello nuovo di panno fino color blù, del valore di 150 lire; 14 boccali di liquore di refosco (valeva 8 lire il boccale), “2 presciuti grandi, una spalla e sallami di carne porcina”.

Dove più c’era, più ricco era il bottino: fra il lungo elenco di cose rubate al bar, Antonio Del Mestri a Cormons (dal vino alle suppellettili), “1 animalia suina, 10 animaletti suini; 30 capponi, 12 galline, 1 carro ferrato con 4 animali bovini”, 6 archibugi e 2 pistole. Ma, ripetiamo, la guerra tante volte non guarda in faccia amici e nemici. A Medea, dai de Grazia, il gastaldo Francesco Traversa sospira: “…Or comprendo quai danni porti la guerra, e quanti spaventi; delle truppe Francesi non posso lagnarmi, se non del corpo franco, ma bensì dell’ultimo corpo de Tedeschi, quali hanno fatto un scialacquio di vino avendo due volte sforzato il portone lasciato correr vino per la cantina, spezzati gli scrigni, sforzate le porte ed il maggior danno poi è stato causato dai abitanti di Medea, con aver trasportato via tutto il sorgoturco, rubati tutti i mobili di casa, cioè tavolini, cadreghe, insomma spogliata affatto la casa…”.

Artisti certi Medeensi: uno rubò perfino l’attrezzatura dei cavatori francesi, ma fu beccato e portato in galera a Palma. Abbiamo finalmente guardato in faccia il vescovo di Perpignano mons. Antoine-Félix Leyris D’Esponchez, giunto esule, dalla Francia; prima peregrinante - dal 1792 - fra Roma, Terni, Ancona, Venezia, Gorizia, per stabilirsi infine a Campolongo, col proprio segretario Clemente Vanson. Quivi morì il 13 luglio 1801; era nato ad Alais (Garde) il 20 dicembre 1750. È una figura di indubbio interesse, inserito in un’ epoca di grandi cambiamenti, in mezzo a momenti di rivoluzione ed altri di reazione.

Anche se, fino a tempi relativamente recenti, vivere fino a quasi 50 anni era ritenuto non andarsene proprio giovani da questo mondo, egli, benché legato all’età dell’assolutismo, cercò di essere pratico, per quanto riguarda la visione pastorale. Sepolto in mezzo alla navata della parrocchiale di Campolongo, ho trovato un’incisione col suo ritratto su internet e una copia mi è stata fornita dal Gabinetto delle stampe della biblioteca nazionale di Francia a Parigi. Campolongo (bellissimo paese, veneto fino al 1797 anche dal tono generale della sua varia e ricca architettura) fu per qualche anno una piccola corte fra il vescovo, dei sacerdoti, un ciambellano e la sua consorte fra casa Michieli e casa Cantarutti.

In generale, clero e popolo non si accorsero dei benefici napoleonici. Forse venne, o sarebbe stata, condivisa da molti l’espressione del Liber memorabilium di Fiumicello, in relazione all’ordine di Maria Luisa che si cantasse un Te Deum per la vittoria di Napoleone a Lützen: “Et hoc ultimum Te Deum pro Napoleone victore cantatum fuit - et circiter post annum minimus inter monarchas evasit !!! imo etiam corona et dignitate imperiali privatus”. “E fu questo l’ultimo ‘Te Deum’ cantato per Napoleone vittorioso, che, circa un anno dopo, risultò il più piccolo fra i monarchi privato della corona e perfino della dignità imperiale”!

In copertina: Napoleone con la sua truppe al battaglia di Borodino, Robert Alexander Hillingford, 1812. Sotto: il volume di Aldo Gallas.

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