l'intervista
La linea dei confini dal Baltico all'Adriatico, il film di Jan Mozetič a Nova Gorica
Domani sera l'ultimo appuntamento con la rassegna estiva del Cinema itinerante Isonzo-Kino Soča, il film doppiato in inglese con sottotitoli in sloveno e italiano.
Con le ultime serate estive sta per concludersi la grande stagione del Cinema itinerante Isonzo-Kino Soča in open air. Si svolgerà domani, martedì 27 agosto alle 20.30, presso il piazzale sul retro del municipio di Nova Gorica, la proiezione del documentario “Due passi dal Baltico all’Adriatico” del regista Jan Mozetič. Già noto per il lungometraggio “Miren dan, A calm day” (2018) - che gioca sul doppio senso del termine “Miren”, alludendo al paese natio e alla quiete che caratterizza il piccolo borgo a due passi da Gorizia - il regista sarà presente alla proiezione proposta da Kinoatelje nell’ambito del programma ufficiale per Go!2025.
Classe 1984, Mozetič ha sempre abitato a Miren (Merna), di fronte al noto cimitero diviso a metà fra Jugoslavia e Italia. Un confine che lo ho segnato fin dalla nascita - come lui stesso ha ammesso – e che ritornerà nella sua opera. «Volevo fare l’astrofisico – racconta con un sorriso durante l’intervista - ma il mio insegnante di matematica del liceo non era molto d’accordo». Dopo aver frequentato il liceo classico Primož Trubar, segue per un anno il Dams e quindi si iscrive all’università Statale di Milano, laureandosi in Storia dell’arte con una tesi su Giacometti.
Scrive nel frattempo per una rivista romana che si occupa di arte e società, che gli consentirà di conoscere molti volti noti dello spettacolo, fra cui il casertano Pietro Marcello. A richiamarlo a casa è la nostalgia per la sua terra: «Più che le persone mi mancava proprio il territorio», rimarca. Dopo aver lavorato per un anno come giornalista incontra la regista Anja Medved, per la quale lavora come cameramen. «Poi pian piano ho iniziato a dirigere lavori un po’ più commerciali». Dopo il successo di «un piccolo film home made» esordisce con “Miren dan”, dove i protagonisti sono gli abitanti di Merna. «Alcune persone le conoscevo già da prima – confessa – altre grazie a una ricerca – come un mese trascorso nell’asilo nido».
L’intenzione era soffermarsi sui sogni del territorio, idea poi sfociata nell’esplorazione dell’interiorità degli abitanti. «Merna, ti dici, è un luogo sonnolento, ma con l’occhio curioso riesci a individuare una molteplicità di mondi paralleli che convivono, pur senza conoscersi. Da chi segue i tiktoker di Londra alla signora di novant’anni, mi piaceva questo piccolo fazzoletto di terra così carico di ricordi, di ferite, vissuto in maniera diversa da persone avulse le une dalle altre».
Personaggi simili ai protagonisti del “Deserto dei tartari”, dove l’attesa dilata le ore in un paese in cui si aspetta «senza sapere cosa». Perché «luogo di confine Miren lo è sempre stato, anche se il confine non è solo una questione di nazioni, è qualcosa di interiore, formato da tutta una serie di prigioni che ci costruiamo. È l’ermo colle, che protegge, fa sognare, immaginare quello che c’è oltre, ma al contempo può essere prigione. Questa ouverture racconta questo tipo di sentimento». Ed è invece l’infinità sterminata dell’oceano che apre il documentario “Due passi dal Baltico all’Adriatico”.
Un mare che invade l’inquadratura per soffermarsi sull’infinito leopardiano, quello spazio che tutto circonda e unisce in un unico fluire. Scritta dallo stesso regista, la sceneggiatura narra un confine «che protegge e al contempo soffoca nella solitudine». Mentre la macchina da presa insegue un gabbiano che passeggia s’una balaustra, la voce narrante racconta come «alla fine, come ogni altra degna storia, questa comincia con “c’era una volta”». Film doppiato in inglese con sottotitoli in sloveno e in italiano, l’opera si compone dei frammenti di quattro personaggi che animarono il mondo della cultura lituana, polacca, ungherese e del litorale italo-sloveno.
Il “Notturno opera 27 numero 2” di Chopin apre la Belle Époque ricordando i tempi in cui regnava la pace. «Non credo che ci sia volontà di delineare percorsi di pace, in questo momento – osserva con rammarico al nostro incontro – Bisogna sempre fare i conti con la realtà. È bello aver idee, ma è necessario anche avere la consapevolezza di cosa sia il mondo. Credo che l’Europa molto lentamente stia realizzando che per raggiungere la pace sia stato necessario attraversare molte guerre, solo che non ci riguardavano direttamente. Non è più così perché la pax romana e la pax americana non ci proteggono più come prima; quindi, ci troviamo esposti agli eventi della Storia».
«Finalmente usciamo dal post-modernismo, e questo vuol dire anche assumersi responsabilità. Non sei più racchiuso dentro i tuoi confini, sei costretto a scontrarti, magari a battere i pugni sul tavolo, perché a volte la vita è anche questo». Un cambiamento radicale attraverso cui la Storia ha iniziato a bussare alle nostre porte da Est, che «ha cambiato un’epoca, ma facciamo ancora fatica a capirlo perché ci siamo immersi dentro. Non ci sarà più un ritorno a quello che era prima – ribadisce – Credo che per le persone di confine, dove le ferite sono ancora aperte, si possa lavorare su un conflitto da superare. Se abbiamo qualcosa da dare è proprio questo, il saper coltivare una conflittualità interiore e saperla articolare in una forma. L’alternativa è “off - on”: o siamo solo conflitto, oppure in pace ma illusi».
La voce narrante femminile del docufilm incede con calma nel suo percorso narrativo, presentando un’era moderna in cui nascono ideologie e nazionalismi. Di qui il parallelismo fra l’attualità della Slovenia, la cui lingua è sopravvissuta prima ancora che lo stato esistesse, e alcuni paesi dell’Est Europa. «La storia del passato è sempre la storia del presente – sottolinea - Che in qualche modo si giustifica o si reinterpreta tramite il passato. La sopraffazione cui oggi assistiamo in realtà c’è sempre stata. Gli imperi hanno questa caratteristica “buona” di sottomettere gli altri e poi lasciarli vivere, in quanto non si occupa di nazionalismo. Un impero non è dettato dal nazionalismo, perché significherebbe avere una capacità di espansione limitata, legata a un’etnia».
Nel docufilm si attraversa il cimitero Antakalnis di Vilnius, fra la «testardaggine delle lapidi che non intendono arrendersi al tempo». Un luogo dove la luce filtra fra gli alti alberi e la penombra lascia intravedere «la pluralità delle epigrafi», a testimonianza di come «un tempo la Lituania fosse uno Stato multietnico». «In Lituania l’impero russo ha avuto un revanscismo russofilo – precisa il regista - La Russia è di fatto un impero, ha al suo interno etnie molto diverse. Dai ceceni, ai turkmeni, ed è ovvio che, quando si tende a soggiacere, il ceppo dominante tiene le redini del potere. Il problema grosso qui è il chiedersi quanto sia illuminato quest’impero, o quanto non lo sia».
«È evidente che l‘impero russo non sia esattamente un mondo illuminato, anche se molti occidentali tendono a giustificarlo. Poi la Storia non è mai determinata da un singolo evento, e non è mai solo economica. È una questione di potere, di cui noi non abbiamo percezione perché assuefatti a vivere nella bambagia. Ma non tutti credono che sia degno vivere in questo modo, molti intendono lasciare un proprio segno nella Storia». Una volontà di potenza che secondo Mozetič non è sovrapponibile alla situazione esistente fra Gorizia e Nova Gorica.
«Qui abbiamo una situazione ormai sedimentata. Può riscoppiare quando ci saranno elementi opportuni da una parte e dall’altra, che la politica potrà poi sfruttare. Magari non adesso, magari mai – auspica – ma sono cose che restano celate, di cui la politica si limita a prendere atto. Come il trumpismo, frutto dell’America che aveva bisogno di un Trump». Secondo il regista l’errore sta nel ridurre la Storia a figure singole, «piccoli atomi che in qualche modo decidono tutto. In realtà siamo il risultato di un pensiero, di una comunità», conclude.
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