Lettere - La cantina del nonno

Lettere - La cantina del nonno

LA LETTERA

Lettere - La cantina del nonno

Di Enrico Altran • Pubblicato il 10 Nov 2024
Copertina per Lettere - La cantina del nonno

Ci scrive Enrico Altran proponendo un racconto d’infanzia. Il testo contiene delle riflessioni attuali sulla situazione sociale di Monfalcone.

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Riportare il dialogo al centro dell’azione amministrativa cittadina a Monfalcone. È quanto propone Enrico Altran attraverso questa lettera che offre un racconto partendo dalle basi educative della sua infanzia. Principi e sentimenti che l’autore ritiene validi ed attuali. Altran richiama «Un modo di vivere civile e di progresso, frutto dei contributi di tutte le famiglie che sono vissute e che vivono il territorio […]». Secondo l’autore, “non c’è sostanza” in quanto viene attuato da chi attualmente amministra Monfalcone, rispetto a chi «Viene da Paesi dove vigono regole sociali spesso arcaiche e fuori dal nostro tempo, comunque molto diverse da quelle che abbiamo costruito qui in tanti secoli di storia». Richiamando le Settimane Sociali dei Cattolici in Italia che si sono tenute a Trieste a luglio scorso, l’autore riflette sulla necessità di «Promuovere un nuovo modo di fare politica e un nuovo modo di partecipare alla costruzione ed alla prosperità». Infine, emerge un richiamo a quel «sorriso del nonno». Un sorriso che può diventare parte di un rinnovato stile di vita della città. S.F.

Il nonno era in cantina, davanti al suo banco da lavoro. Tornato dall’asilo sapevo di trovarlo lì e correvo là sotto, saltando sul mio sgabello per rubare con gli occhi ogni suo movimento e cercando di carpirgli il trapano a mano per bucherellare il tavolo da lavoro. Inconsapevolmente, forse, mi stava tramandando la sua conoscenza, un minuto dopo l’altro per tutta la mia infanzia ho potuto assorbire il modo di vedere il lavoro, anticiparne le evoluzioni, elaborare un mio modo di costruire, che sarebbe stato comunque originale ma al tempo stesso solidamente fondato sulle conoscenze arcaiche dei miei avi.  Sono passati gli anni, sono diventato papà, forse potrò essere nonno a mia volta e sento che dovrò anch’io favorire quel passaggio di storia che ha fatto crescere la nostra famiglia e, per la parte che ha potuto e potrà ancora giocare, far crescere un po’ la nostra comunità.

Questo pensiero però lo possiamo – direi, che quasi lo dobbiamo - declinare nel contesto in cui si dibatte in questi anni Monfalcone. Un modo di vivere civile e di progresso, frutto dei contributi di tutte le famiglie che sono vissute e che vivono il territorio, rischia di andare perduto per sempre perché, da un po’ di anni, siamo stati sempre di più spinti a vedere il futuro con paura, ancorandoci ad un passato che spesso esiste più nella nostra mente che nella realtà, piuttosto che concentrarci a tramandare questo patrimonio a chi arriva da tanto lontano. Ormai, un terzo della popolazione cittadina viene da fuori, viene da Paesi dove vigono regole sociali spesso arcaiche e fuori dal nostro tempo, comunque molto diverse da quelle che abbiamo costruito qui in tanti secoli di storia. La città, in questo momento storico, chiede certezze e risposte a problemi concreti ma riceve spesso rassicurazioni superficiali, che nascondono i problemi con narrative distorte, che illudono i cittadini: con un po’ di telecamere, regole ferree, abbellimenti estetici della città, si respinge l’”invasione” straniera e si ritorna ad una condizione che si ricordava essere molto più sicura e prospera.

In realtà sono anni ormai che il saldo demografico del nostro Paese, tra nati e morti, è negativo, siamo sempre più vecchi e non troviamo operai ed operatori per mandare avanti l’industria, i servizi, il commercio. Con i numeri che ci caratterizzano, o ci lasciamo assopire fino a scomparire, o accettiamo che arrivino nuove risorse, da Paesi anche distanti, ma con una aspettativa di vita sufficientemente alta per assicurare l’equilibrio delle risorse economiche e lo sviluppo dell’Italia e della nostra città in particolare. Ecco perché l’approccio del cercare un nemico invasore e fargli dispetti più o meno pesanti, con atteggiamenti spesso ben poco cristiani e civili, cercando di mandarlo, via è destinato a fallire: gli immigrati ci servono e noi serviamo agli immigrati. Dalle Settimane sociali della Chiesa, che si sono tenute a Trieste a luglio scorso, ci arriva un messaggio chiaro: dobbiamo promuovere un nuovo modo di fare politica e un nuovo modo di partecipare alla costruzione ed alla prosperità del nostro modo di vivere. In sostanza, siamo chiamati ad essere quel nonno che, in “cantina” spiega ai nuovi arrivati come si cura la casa, come si affrontano i problemi, come si partecipa alla cura del Creato che ci è stato affidato e che dobbiamo lasciare, migliore di come l’abbiamo ricevuto, ai nostri figli.

È necessario fare in modo che chi arriva possa imparare velocemente e bene la nostra lingua, le nostre consuetudini, il nostro modo di vivere, le nostre feste e tradizioni perché queste sopravviveranno e si evolveranno se sapremo farle apprezzare a chi arriva e, imparando a conoscerci, coglieremo l’arricchimento che il nuovo arrivato ci può portare, rendendo la piccola città industriale un grande gioiello sociale dove vivere, crescere, prosperare ed amare. Tornando alla cantina di via Cosulich, ricordo che il nonno, di solito burbero e taciturno, quando arrivavo sfoderava un grande sorriso ed io ero appagato al solo essere con lui. È difficile, complesso e non lo abbiamo chiesto noi alla grande fabbrica di stravolgere la composizione sociale di Monfalcone, ma se vogliamo riprendere a vivere serenamente nelle nostre strade, piazze, scuole, teatri, fabbriche e negozi, dobbiamo capire che il “sorriso del nonno”, la sua pazienza e la sua convinzione dovranno essere il nostro stile per avere successo.

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