Premio ires 2020 per la miglior fotografia
L'immagine è politica, viaggio nel cinema attraverso gli occhi del regista di Gorizia Jan Mozetič
Il giovane regista ha ricevuto un importante premio sloveno per il suo documentario 'Miren dan'. Il racconto di cos'è per lui il cinema.
In un anno travagliato come il 2020, anche il cinema ha avuto i suoi problemi legati alla pandemia. La chiusura delle sale e l'impossibilità di svolgere in presenza la gran parte dei festival ha infatti inferto un duro colpo al settore, insieme al blocco dei finanziamenti e delle commesse per molte produzioni in fase di avvio o addirittura già partite e finite. In uno scenario così nefasto, c'è comunque spazio anche per le belle notizie, come quella del conferimento al regista 35enne Jan Mozetič (nella foto) del premio Iris per la migliore fotografia in un documentario con la sua opera "Miren dan" (in italiano "Una giornata tranquilla") del 2019. La cerimonia si è tenuta online pochi giorni fa.
A impreziosire il riconoscimento è il fatto che è stato decretato dall'Associazione degli operatori cinematografici sloveni, che raggruppa tutti i professionisti del settore d'oltreconfine, tra cui alcuni considerati vere e proprie istituzioni nazionali e nei Balcani. "È certamente gratificante sapere che persone come loro abbiano anche solo visto il mio film" racconta il regista, natio di Merna ma da anni residente a Gorizia. Si tratta peraltro del primo riconoscimento ricevuto per questo lungometraggio, co-prodotto dal Kinoatelje e che doveva essere presentato quest'anno in alcune kermesse cinematografiche europee, annullate a causa del Covid. Nel documentario è stata così raccontata una normale giornata nell'ominimo paese sloveno, raccontata da personaggi giovani e anziani, tutti con le proprie storie alle spalle.
"Sono persone che vedono la realtà con occhi diversi - spiega Mozetič -, perché i più vecchi hanno ferite inevitabilmente legate alla storia, mentre gli altri vivono immersi in una società ormai ultra-competitiva". Il panorama umano è tra i più variegati: dalla bodybuilder vegana a un operaio che si dedica alla meditazione, passando per una 90enne discendente di una prestigiosa famiglia del Goriziano e un uomo che soffre di disturbi della personalità. "Volevo un film collettivo e tutto ciò che ho raccontato è reale, frutto della quotidianità dei soggetti che ho coinvolto". Il tutto parte dalle basi del documentario di osservazione, per poi trasformarsi attraverso la narrazione dei personaggi che, sottolinea il regista, “non ho restituito nella loro interezza, ma in una porzione del loro essere”.
Il film rappresenta bene come il giovane professionista vuole raccontare le storie che lo circondano, ma ci tiene a rimarcare un aspetto in particolare, ossia quella “miglior fotografia” per cui è stato premiato. “Non è una questione di bello o brutto ma meramente estetica come possono essere gli scatti su Instagram. Si tratta di restituire dei concetti ed emozioni allo spettatore, che siano poi a usufrutto della storia. Puoi fare anche immagini ‘brutte’, purché siano funzionali in quel momento. È anche un tema etico-politico su come poni l’immagine, perché lo sguardo all’improvviso si allarga e il mondo diventa più grande”. Un aspetto su cui banalmente non si pone attenzione, semplificando invece il tutto in scene plastiche che danno la “pappa pronta” a chi guarda.
“Le scene hollywoodiane sono perfette perché sono estremamente facili, dove il personaggio esce dallo schermo. L’immagine, però, può essere una struttura complessa. Vanno benissimo entrambe, ma da spettatore e regista sono più interessato a costruire scenari complessi, anche se l’arte è una semplificazione del mondo. Chi guarda dovrebbe essere portato a farsi delle domande, perché è il momento in cui può veramente cambiare il suo punto di vista”. In questo senso, quindi, il regista diventa una sorta di antropologo moderno, dove la narrazione di ciò che accade si interseca inevitabilmente con l’occhio dello stesso regista. “Bisogna essere onesti, però, perché la propria presenza influisce in qualche modo sull’atteggiamento dell’altro, come nel paradosso del gatto di Schrödinger”.