Un grande e umile Tornatore all'Amidei, il viaggio nella storia del cinema a Gorizia

Un grande e umile Tornatore all'Amidei, il viaggio nella storia del cinema a Gorizia

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Un grande e umile Tornatore all'Amidei, il viaggio nella storia del cinema a Gorizia

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 14 Lug 2024
Copertina per Un grande e umile Tornatore all'Amidei, il viaggio nella storia del cinema a Gorizia

Questa mattina l'incontro del regista Premio Oscar con il pubblico al Kinemax, spaziando nella storia del cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri fino a Trieste.

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Un gigante umile. Giuseppe Tornatore si sente «lusingato e smarrito», quando il suo lavoro viene accostato al genio di Luchino Visconti o Sergio Leone. Dopo aver ricevuto ieri sera il Premio Amidei all’Opera nella cornice di piazza Vittoria (nella foto), oggi il maestro si è concesso al pubblico in una gremita sala del Kinemax, nell’incontro moderato dal critico Paolo Mereghetti e dal saggista e docente Roy Menarini. «Un riconoscimento che onora Gorizia e l’intero Friuli Venezia Giulia», ha commentato il vicegovernatore con delega alla Cultura e allo sport Mario Anzil durante la premiazione.

Molte le tematiche e gli aneddoti raccontati dall’autore in mattinata, lasciando trasudare tutta la Storia del cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri. Definito da Mereghetti «sceneggiatore solitario» - termine nel quale si rifrova – Tornatore ricorda come già ai tempi del liceo incontrasse difficoltà a studiare nel gruppo dei coetanei. «Riconosco in questo limite il lavoro di incrocio dell’apporto creativo». E riportando alla memoria la grande amicizia con Massimo De Rita – con cui scrisse “Il camorrista” (1986) e “Leningrado” (mai realizzato) – racconta l’aneddoto del bigliettino lasciatogli sempre a conclusione: «So che la lettura di queste pagine determinerà la fine di questa nostra amicizia».

De Rita ricopriva per il regista il ruolo di «levatrice», spronandolo senza ostacolarlo nella misura in cui «capiva i miei tormenti, cercava di aiutarmi, più che imporre la propria visione». Una sinergia poche altre volte raggiunta, come con Tonino Guerra per “Stanno tutti bene” (1990), al quale si rivolse spinto dal produttore Mario Cotone. «Mastroianni mi disse di non farlo» per via dei suggerimenti diversi dall’idea originaria. «Poi capii che era il suo modo di mettere alla prova il regista». E in merito al mestiere del regista, Tornatore non ha dubbi. «Di me si dice: “È ossessivo, è viscontiano”. In realtà un regista deve essere rigoroso, non dovrebbe trattarsi di un’eccezione, ma della normalità».

Di qui l’aneddoto dell’incontro con Pupi Avati, sorpreso di fronte al rifiuto di Tornatore di girare una scena dove le comparse indossavano le stesse scarpe. «Essere viscontiano non è questo – spiega - È la prospettiva che lui assume, il respiro delle sue opere, che non si emula prestando attenzione alle scarpe. Non basta riempire gli armadi, per essere Visconti. Non mi sono mai illuso che il mio essere meticoloso potesse essere viscontiano». Una definizione del «cinema cinema» proposta da Menarini che non lo convince appieno: «Non mi ha mai persuaso del tutto. Quando ci si ritrova di fronte a un cinema imponente, allora si tratta di “cinema cinema”».

Per me “Anatomia di una caduta” (Justine Triet, 2023) è “cinema cinema”. Oppure “As bestas” (Rodrigo Sorogoyen, 2022), un altro straordinario film. Cito due film che hanno un rapporto forte con le tematiche della nostra sceneggiatura. Io non decido di fare “Baarìa” (2009) per le scene di massa, ma per rivivere il contesto in cui sono nato, e nel quale sono nati i miei nonni. Il cinema dona il privilegio di realizzare questo tipo di sogno». Citando poi Martin Scorsese, sottolinea come la produzione filmica sia frutto del cinema di cui ci si è nutriti. «Il contesto stesso in cui vedevo i film era spettacolare, e questo viene fuori».

Sulla sua strada volti noti, da Polanski – il commissario di “Una pura formalità” (1994) – ai registi che lo hanno segnato, come Ingmar Bergman o Francesco Rosi. «Quello con Francesco è stato uno di quegli incontri che mi hanno fatto scoprire un cinema diverso. Quelle luci, quei neri, quelle urla, quelle facce, io le conoscevo. Fu un cortocircuito che mi scosse. All’inizio degli anni Sessanta decisi di andare a vedere gli altri suoi film. Significava farsi dare un passaggio in auto, o prendere una corriera, oppure reperire una copia dalle Paoline, chiedendo in prestito un proiettore sedici millimetri. Poi ho avuto il privilegio di conoscerlo, scrivendo un libro sulla sua vita. Rosi è un esempio di come si possa essere viscontiani senza fare Visconti».

Discepolo di Luchino - aiutoregista ne “La terra trema” (1948) insieme a Zeffirelli - Rosi «disegnava le inquadrature. Un giorno dovevano girare il seguito di una scena, dove i personaggi tornavano a riva dopo una tempesta». Avendo Rosi fornito indicazioni parziali in merito al punto in cui l’albero dell’imbarcazione si sarebbe spezzato, Visconti decise di interrompere le riprese. «Mandò un telegramma, dove scrisse “Oggi non si può girare perché il segretario di produzione non ha fornito le indicazioni necessarie. Rosi sedette s’uno scoglio in lacrime».

«Francesco è sempre stato di un rigore assoluto. Ho apprezzato il suo cinema per il suo modo di rapportarsi alla realtà, per la visione politica e per il film d’inchiesta. Quanto di questo si sia distillato e sedimentato nei miei film, non saprei dire. Qualcuno dice che “Il camorrista” è un film rosiano. In realtà è una storia romanzata, Francesco non l’avrebbe mai fatto così». In merito al lavoro sul set cinematografico, il regista ama «poter cambiare e trasfigurare. Girare un campo in un luogo e un controcampo in un altro, per dare un senso di smarrimento, e perché manipolare l’ambiente un po’ mi diverte, se la storia me lo consente».

La difficoltà maggiore sta nella ricostruzione dell’ambientazione in teatro. «Allora cerco di far tesoro dell’insegnamento di un altro grande regista, Dreyer». Il quale per ottenere un ambiente verosimile «lo faceva arredare al massimo delle possibilità», per poi spogliarlo, ottenendo «un ambiente che aveva già vissuto». Un fascino per la verosimiglianza presente anche nei suoi documentari. «Ho iniziato da ragazzo come fotografo, per poi passare alla cinepresa otto millimetri e infine alla superotto. Andavo in giro a rubare immagini. Farlo con la cinepresa cambiava tutto, provavo un senso di grande libertà».

Fra i documentari menzionati, oltre a “Ennio” che omaggia Morricone (uscito nel 2022), anche “L’ultimo gattopardo” (2010), affettuoso ritratto del produttore Goffredo Lombardo. «Mi piace tornare al documentario quando si tratta di raccontare persone che mi stanno a cuore – ammette riferendosi a Lombardo – Con Ennio è stato un modo per restituire la grande amicizia e conoscenza, del suo modo di rapportarsi alla musica, al mondo, alla vita», proponendo al produttore di non fornire limiti al repertorio. In merito ai paesaggi e alle ambientazioni, «grande serietà» ha ritrovato nella città di Trieste, dove ha girato “La sconosciuta” (2006) e “La migliore offerta” (2013) anche grazie alla collaborazione della Film Commission: «Quando mi capita di parlare con Gabriele Salvatores, che ha fatto molti più film di me ambientati a Trieste, su questo ci troviamo d’accordo».

Nell’indagare il rapporto con la serialità proposta da Mereghetti, Tornatore ricorda l’«esperienza unica» de “Il camorrista”, girato come film e come serie in cinque episodi - mai usciti, ma oggi restaurati - «Quando mi è stata proposta la serie su “Il gattopardo”, che avrebbe significato competere con Visconti, ho detto no. Tempo fa un produttore aveva pensato anche a una serie su il “Nuovo Cinema Paradiso”. Poi fortunatamente non s’è fatta. Non ho pregiudizi, ma non fremo all’idea della serie televisiva. Forse capiterà. Se capiterà, non mi tirerò indietro».

Il pensiero di fare un film su una sala cinematografica simile a quella del proiezionista Alfredo la stava in realtà maturando dal lontano 1977. «Ero terrorizzato dall’idea di fare un primo film personale, sognavo di farlo dopo quattro cinque film, ma dopo “Il camorrista” entrai in un momento di sconforto. L’ho fatto prima del tempo, ma mai avrei pensato che sarebbe stato il successo». Un’opera straordinaria che ancora oggi suscita entusiasmo, com’è accaduto lo scorso ottobre, quando la versione restaurata presentata all’Academy Museum of Motion Pictures di Los Angeles ha registrato il sold out.

«Il pubblico reagiva esattamente come trent’anni prima. Evidentemente il mondo è popolato da generazioni di Totò». Un film inizialmente accolto come «nostalgico con l’accezione negativa», la cui definizione lo turbava. «Poi gli è rimasta come etichetta. Ma Gabriel Garcia Marquez diceva “È la nostalgia, che muove il mondo”. E in questo senso è un po’ così anche per me».cold-smooth-tasty

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