la conferenza
La storia di Nino Paternolli a Gorizia, la grande amicizia con Carlo ed Enrico
A curare la rassegna di immagini ieri sera l’ingegner Elio Candussi, che ha ripercorso le tappe di una vita con l’ardore della ricerca storiografica.
In treno fin dove l’Isonzo si allarga a formare il lago trasparente di Santa Lucia (Most na Soči), e da lì a piedi per venti chilometri per raggiungere Loqua. I due alpinisti sono Nino Paternolli e il germanista Ervino Pocar, che per compiere il dislivello di mille metri imboccano un canalone sbagliato. È la roccia, a tradire Nino, o forse la stanchezza: precipita nel vuoto a soli 35 anni, lasciando un’intera città sbigottita. Si è svolta nella serata di ieri a Gorizia – presso una gremita sala Dora Bassi – la conferenza in memoria di Giovanni Paternolli, su iniziativa del Lions Club e con il patrocinio del Comune.
A curare la rassegna di immagini l’ingegner Elio Candussi, che ha ripercorso le tappe di una vita con l’ardore della ricerca storiografica. Presenti gli assessori Sarah Filisetti e Fabrizio Oreti, quest’ultimo rimarcando l’importanza di «rispolverare la storia di uomini di cultura e personaggi che hanno dato tanto lustro al nostro territorio». Concorde il presidente del Lions club Massimiliano Tosto, secondo cui «bisognerebbe valorizzare costantemente personalità di grande spessore». Un uomo giusto, temprato, dedito a «donchisciottare quel benedetto Sancho Panza della nostra borghesia» portando coraggiosamente «Don Chisciotte nel mondo degli affari».
A leggere il necrologio - scritto dall’amico Biagio Marin nel primo anniversario della morte - è l’attrice Valentina Verzegnassi, da cui Paternolli viene affettuosamente «trasumanato». L’amarcord inizia con la libreria Paternolli, che sorge su corso Verdi in quella che oggi è sede del Trgovski dom. Nella foto successiva vengono mostrate le vestigia di un uomo scomparso nel lontano 1923, quella tomba che ai giorni nostri riposa presso il cimitero Centrale recando l’appellativo «professor dottor», a ricordare come Nino aspirasse a diventare insegnante. Fra le tracce presenti nel quotidiano – oltre alla silenziosa strada che reca il suo nome – rimane il palazzo di famiglia, un gioiello il cui restauro è quasi giunto a conclusione grazie all’intervento del milanese Gruppo Visconti.
Una storia nata da nonno Giovanni, padre di Giuseppe. Dall’unione fra Giuseppe e Angela Pellegrini nascerà il primogenito Nino, destinato a perdere la sorella Anita e il fratello Paolo ancora giovanissimi. Nino stringerà amicizia con Carlo ed Enrico. Quel Carlo Michelstaedter che scriveva di filosofia prima di cedere alla follia causatagli dal Treponema pallidum - lo stesso che si portò via Van Gogh in un campo di grano infestato dai corvi – Mentre Enrico Mreule è l’anarchico asociale che tornerà nell’opera “Un altro mare” scritta da Claudio Magris. Tre amici che il destino decide di riunire presso lo Staatsgymnasium, durante gli anni della spensierata Belle Époque.
Ad avvicinarli, le avide letture di Socrate, Platone, Schopenhauer, Nietzsche, ma anche Ibsen e Tolstoj in lingua originale. Giovani uniti da una certa insofferenza verso «il perbenismo piccolo-borghese di Gorizia» e quelle «rigide norme sociali e del provincialismo» che caratterizzano la città, rimarca Candussi. Dagli abbaini entra una luce soffusa: è la “soffitta di Nino” a Palazzo Paternolli, dove Carlo amava fermarsi, forse seduto su quella grande poltrona di vimini che emerge dalla memoria del passato. Un palazzo la cui conclusione è ormai prossima, che secondo Candussi «sarebbe giusto richiamasse tutti e tre con pannelli o busti arricchiti da didascalie, ed eventualmente una mostra stabile».
“Memorie di ragazzi perbene” alla ricerca di libertà nel fiore della propria giovinezza, fotografati intenti ad arrotolarsi una sigaretta sul monte Sabotino, mentre ai loro piedi si staglia la pianura e il mare ammicca distante. Fra le foto compare il grosso masso chiamato “Olimpo”, alto sette otto metri, dal quale pare si tuffassero i ragazzi. «Sulla Voce di Gorizia del '22 o '23 si diceva “Quest’anno abbiamo raggiunto il record di 33 morti annegati nel fiume Isonzo” – racconta Candussi – Un fiume molto frequentato e per niente tranquillo». La felicità, si sa, dura un soffio. Il terzetto si dissolve, inghiottito dal fato impietoso.
Enrico decide di partire nel 1909 per l’Argentina alla ricerca di un “non-luogo”, mentre nell’ottobre dell’anno successivo Carlo pone fine alla propria sofferenza con un colpo di rivoltella. Due antieroi in fuga da una civiltà che ha saputo solo mietere vittime durante il Primo conflitto mondiale. Sarà Nino a «mettere la testa a posto, andando a lavorare nella libreria del padre». Qui incontra il poeta gradese Marin e quel Pocar con il quale compirà innumerevoli escursioni in montagna. «Nel giro di poco tempo muoiono padre, fratello e sorella», prosegue Candussi. Nino resterà con sua madre, mentre a poco a poco i giovani della borghesia nascente rientrano in città «carichi d’entusiasmo».
Viene riaperta la libreria, che diverrà «cenacolo culturale» in cui il nuovo gruppo d’intellettuali s’interroga sul ruolo della città, divenuta italiana nel 1918 dopo cinque secoli di dominazione asburgica. In questo terreno fertile nasce anche la Voce dell’Isonzo, guidata da Carlo Luigi Bozzi. Nel mese delle rose Nino convola a nozze con Giuseppina Venuti, nell’imponente chiesa di Sant’Ignazio. Il palazzo di piazza Grande – danneggiato da una granata nel 1915 - sarà affidato allo zio, mentre i due si stabiliscono in via Dante e nel 1920 verrà riaperta la tipografia di Corso Verdi al civico 38.
L’amicizia con lo studioso sloveno Alojzij Res, che nel sesto centenario della morte aveva pubblicato un saggio su Dante - con il contributo di Gaetano Salvemini e Benedetto Croce – spingerà Nino a tradurre e pubblicare l’opera nell’edizione italiana. La tipografia diviene casa editrice, mandando in stampa un testo in cui campeggia un parallelismo fra Dante e France Prešeren e la geniale traduzione in sloveno del Canto Quinto dell’Inferno, a cura del poeta Oton Župančič.
Finché sopraggiunge quel caldo agosto del ’23, quando centinaia di goriziani partecipano alla festa di Loqua. Le nuvole si muovono veloci, lassù in alto. «Nino si aggrappa a una roccia, che si stacca. Muore sul colpo», conclude Candussi. «Già dalle 14:30 via Lombroso era affollatissima di cittadini. Nella cappella mortuaria tale era la ressa che a un certo punto si dovette chiedere l’intervento dei vigili», legge Verzegnassi. Un funerale al quale prende parte l’intera cittadinanza, mentre i negozi rimangono serrati. Nel ’45 la vedova Pina verrà deportata dai titini «e fatta sparire», così che la tipografia viene ceduta dalle figlie superstiti.
Nel 2003 - a 80 anni dalla morte - la lapide deposta nel luogo in cui Nino cadde tragicamente venne restaurata dalla comunità di Tribussa, che in seguito ne appose un’altra di acciaio in un luogo più facilmente raggiungibile. Pioggia battente, rami e rocce cadranno, a occultare la lapide originaria, ma resterà indelebile nella memoria la storia di un intellettuale che ha voluto unire due comunità sotto il segno della cultura e della libertà.
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