‘Un grammo di cuore’: così Jan Cvitkovič dialoga con i tossicodipendenti

‘Un grammo di cuore’: così Jan Cvitkovič dialoga con i tossicodipendenti

Il racconto

‘Un grammo di cuore’: così Jan Cvitkovič dialoga con i tossicodipendenti

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 08 Mar 2025
Copertina per ‘Un grammo di cuore’: così Jan Cvitkovič dialoga con i tossicodipendenti

Da Ljubljana la proiezione al Kinemax di Gorizia, il 10 marzo parlano gli esclusi.

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È un tortuoso cammino nel cuore dell’animo umano, quello che sta per essere presentato lunedì al Palazzo del Cinema di Gorizia. Prosegue la Rassegna del cinema sloveno con il documentario “Un grammo di cuore”, che verrà proiettato per la prima italiana il 10 marzo - alle 20 – presso il Kinemax di piazza Vittoria. A dialogare con il pubblico il regista Jan Cvitkovič, nato a Lubiana nel 1966 e conosciuto in Slovenia per la commedia noir “Kruh in mleko” (“Pane e latte”, 2001), oltre che per “Odgrobadogroba” (“Di tomba in tomba”, 2005), “Arheo” (2011) e “Druzinica” (“The basics of killing”, 2017). I tossicodipendenti incontrati «hanno una cosa in comune: un’infanzia priva di calore e sicurezza – osserva l’autore nell’incipit - È rimasto un vuoto che cercano di colmare. Ci provano e ci provano, ma il vuoto non si colma. Ogni grammo è inutile». Da qui prende il via la sua lunga discesa agli inferi fra gli esclusi che vivono nella capitale slovena, disperati in preda alla solitudine e all’angoscia alle quali cercano di sfuggire rifugiandosi nella droga.

«L’anima è ferita, solo è il cuore – recita un uomo seduto sulla panchina, nell’introduzione – Pensando a dove trovare un tetto ho scordato com’è avere un letto». Volti anziani o giovani innanzi ai quali la cinepresa indugia, in una dolorosa riflessione intorno agli emarginati. Sono questi, a raccontarsi attraverso i versi scritti dallo stesso Cvitkovič: lasciando traboccare tutta la propria innocenza e facendo trasparire la sommessa pietà del regista. Chini su se stessi, accovacciati nella propria in-esistenza mentre la società è indaffarata in altro e la stessa troupe si staglia davanti all’obiettivo, alcuni di loro non avranno nemmeno la forza di reagire. È il caso dell’uomo in cerca di appiglio accanto a un muretto, mentre la macchina da presa cala lentamente verso il basso nel tentativo di documentarne il dramma. L’uomo si curva in avanti, rimanendo miracolosamente fermo sulle proprie gambe senza crollare a terra.

«Hai qualche desiderio?», domanda il regista a Brina, inquadrata in un primissimo piano. «Non voglio essere tossica a vita», rivela la giovane con un sorriso colmo di speranza. «Ti ho visto disegnare», prosegue Cvitkovič, quasi a suggerirle una via di fuga. Personaggi che hanno sete d’amore e desiderio di tornare in seno alla normalità, per i quali sarà sempre troppo tardi. A risucchiarli è il vortice della droga, che li trascina in quell’esistenza perennemente in bilico fra il senso di colpa e il rifiuto, dove per tutta la vita si rimane «fuori posto». Si comincia «per gioco» con l’erba e l’ecstasy, fino a diventare «cocainomane a tredici anni» senza nemmeno prenderne coscienza. Lo testimonia la mamma adottiva di Brina, dipinta dagli altri come «pessima madre» e incancrenita per la sofferenza della figlia. Dal suo giardino lussureggiante la macchina da presa si sposta dentro una casa abbandonata, inquadrando mozziconi e siringhe. Entriamo nella vita di Marko, attraversando rifiuti accatastati in stanze nude per arrampicarci nella «bella mansarda al centro di Lubiana», una soffitta puntellata per evitare crolli.

«La mia forza è svanita - commenta Cvitkovič contagiato dal dolore - nei sogni annego ogni volta». Anche l’infanzia di Marko è segnata da una madre assente e dalle frequenti “bigiate” a scuola, fino a quel fatidico 1994, quando durante una festa a Capodistria inizia ad assumere eroina. «Era una sensazione così bella che anche vomitando mi sentivo bene», spiega Marko mentre si prepara una dose. «Ho inalato gas fino ai 33 anni, poi un anno e mezzo di carcere», fino a scoprire la cocaina. Dipendente dalle pillole, la sua vita spezzata è ormai prigioniera della “coca”. «Eri un bel giovane ferito – riflette la voce fuori campo di Jan – ma la tua casa è piena di paura», conclude tornando alla panchina in apertura. Dove ritroviamo Adnan, che prosegue il suo soliloquio infilandosi in un vicolo di domande senza via di scampo. «Dove vedi la luce, se il buio ti circonda? Come stai a galla, se la vita ti affonda? Come puoi scappare, se sei intrappolato?».

A parlare sono loro, quelle lacrime che «scendono furtive» in luogo delle parole. È la volta di Ema, la bottiglia fra le mani, che scrive poesie perché «è meglio dell’erba» e vorrebbe essere Lady Gaga. Ema vive in strada e aspetta un bambino, «forse due gemelli», auspica mentre sorseggia birra. Ancora una volta Jan si allontana impietosito, per raccontare l’infanzia di Petra, e poi quella di Vid, con il padre che sfondava la porta del bagno e lui che si nascondeva con la mamma. Una vita in bianco e nero in cui tutto «o è una bugia o è la verità, o sei dipendente o non lo sei». Riecco il poeta Danijel, che regala versi di saggezza senza nulla chiedere: «Una betulla solitaria i rami allunga, non vuole sguardi umani». Similmente i tossicodipendenti, che sperano in una vita migliore nonostante l’esilio dai “normali”, un berretto in testa quale unica sicurezza al mondo.

Si presenta Aleks, i lobi delle orecchie forati e i tatuaggi a ragnatela, a rappresentare l’intricato percorso della sua vita. Vorrebbe aiutare tutti, ma vive sperando che il mondo migliori, per sbocciare in un luogo «senza più guerre né lotte per la terra». Ermin è invece un padre che si guadagna il pane mendicando di nascosto alla famiglia dalla quale è stato abbandonato. Gli occhi gonfi per un pestaggio, sopravvive a stento, lo sguardo ormai incapace di aprirsi al mondo. Ciascuno svela la sua storia: un florilegio di esistenze che si dissolve nella canzone finale “Welcome to my magic place”, dove a risplendere sopra ogni male è il meraviglioso sorriso dei protagonisti. Quello di Brina Saša, Danijel, Petra, Ema, Vid, Aleks, Ermin, Adnan, Maja, Matej e Miro insieme a mamma Joži. E infine quello di Marko, deceduto poco dopo le riprese. 

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