LA SERATA
Gorizia e lo Staatgymnasium: la memoria di una convivenza plurilinguistica a 'Mosaici d'Europa'
L’incontro di martedì sera si è svolto presso il Trgovski dom, incentrandosi sul miracolo dello Staatgymnasium goriziano.
Era il 1921, quando Biagio Marin scrisse all’allora ministro dell’istruzione Benedetto Croce per evidenziare il contributo della scuola austriaca, sollecitando un ripristino delle condizioni anteriori alla guerra. Due anni più tardi il governo fascista soppresse la provincia di Gorizia e intellettuali come Marin o Ervino Pocar presero altre strade. Prosegue la rassegna “Mosaici d’Europa” organizzata dal Teatri Stabil Furlan, che martedì sera ha acceso i riflettori sul miracolo dello Staatgymnasium goriziano. L’incontro si è svolto presso un gremito Trgovski dom, coniugando le riflessioni di Marina Bressan e Antonio Devetag alle letture dell’attore gradese Tullio Svettini.
Un’istituzione erede della scuola gesuitica sorta nel 1616, che nel 1690 contava 569 alunni provenienti non solo dalla Contea di Gorizia, ma anche dai territori limitrofi come il Veneto e persino dalla Lombardia. A portare una svolta nel panorama culturale fu l’introduzione dell’obbligo scolastico sotto Maria Teresa d’Austria, nell’anno 1774. Mentre nel 1751 veniva soppresso il Patriarcato di Aquileia e nel 1773 l’Ordine dei gesuiti, nel 1775 il ghetto ebraico vide inaugurare la prima scuola elementare e l’istituto delle Orsoline. «Durante il periodo napoleonico la lingua obbligatoria insegnata divenne il francese, ma dopo il Congresso di Vienna Gorizia tornò agli Asburgo», ricorda Bressan. L’Imperial regio ginnasio prevedeva sei classi, che nel 1848 passarono a otto prevedendo la lingua di insegnamento tedesca. «Italiano e sloveno erano comunque obbligatorie – rimarca – lingue regionali introdotte fin dalla prima classe».
Nella contea si comunicava in tedesco, ma anche in italiano, sloveno e friulano. «C’era una varietà linguistica non da poco. Le persone parlavano comodamente quattro lingue», prosegue. Nonostante rivalità nazionali si conviveva pacificamente nel rispetto reciproco. Una peculiarità che ancora oggi caratterizza una città fondata sulla pluralità linguistica, in procinto di celebrare fra qualche mese l’unità della Capitale culturale europea. «C’era un buon grado di convivenza civile. Da un lato spiccava la presenza della popolazione germanofona legata al governo burocratico e militare; dall’altra la diversità di slavi e italiani accomunati dalla religione cattolica». Un plurilinguismo garantito in primis dal governo austriaco, che aveva concesso autonomia scolastica senza mai tentare di germanizzare il percorso di studi.
L’approfondimento della lingua tedesca consentiva di proseguire la propria formazione a Vienna – come fecero Pocar o Marin, quest’ultimo laureandosi a Roma – ponendosi in parallelo alla lingua italiana e slovena, che rimasero obbligatorie fin dal 1849 – 1850 con due ore settimanali portate poi a quattro. «I contrasti fra italiani e sloveni non furono mai così evidenti – racconta Bressan – i primi tafferugli emersero nel 1868 e nei decenni successivi. Cosa chiedevano, gli sloveni? Esigevano l’uso della lingua e l’apertura di scuole». Un governo austriaco che rispettava la figura dell’insegnante, il quale godeva di autorità e stima anche da parte degli allievi e si proponeva di promuovere l’unità fra le singole scuole. Affiatamento atto a curare l’andamento scolastico e il bene generale dell’istituto, dove «su una trentina d’insegnanti, solo sei o sette erano italiani», che puntavano all’obiettivo di «infondere una certa spiritualità anche nelle materie più aride».
Ed ecco riaffiorare alla memoria - attraverso la recitazione accorata di Svettini - la scuola dipinta a tinte sbiadite dal poeta Marin, con il «vecchio seminario tinto di giallo» e le finestre «che davano a tramontana, così che quando pioveva il grigiore era così denso da levare il respiro». Una scuola in cui convivevano tre diversi mondi ciascuno consapevole della propria diversità, dove «nelle prime classi si stava separati per nazionalità», per poi fondersi in un’unica classe al quarto e quinto anno. Ricordi raccolti nel volume “Gorizia. La città mutilata”, dai quali emerge come durante i riposi i ragazzi tendessero a formare piccoli gruppi attenti a «sorvegliare il proprio linguaggio», dove «la disciplina aveva il sopravvento e i rapporti si facevano cordiali».
Di animo introverso era invece Carlo Michelstaedter, che s’iscrisse nel 1897 – 1898 per conseguire la maturità nel 1905. Ragazzi che studiavano Goethe, Grillparzer o il teatro rivoluzionario di Schiller, per approfondire nella sesta classe Alfieri, Parini, Goldoni, Dante, affiancati ai latini Cicerone, Omero o Senofonte. «L’attività educatrice individuata da Michelstaedter era incentrata nell’amicizia fra individui – spiega Bressan – che non erano solo Paternolli o Mreule, ma anche sloveni». Durante le ore di supplenza Carlo scrive versi, come quelli che narrano del distacco ne “La scuola è finita!”, letti da Svettini. «Ansie e battaglie e faticose veglie/liete sconfitte e facili vittorie/e voi quaderni carchi di memorie/io v’abbandono», scrive trepidante il giovane Carlo.
Con lo scoppio della guerra nel 1914 Gorizia rappresentava l’ultimo baluardo dell’impero austroungarico, caduta la quale si sarebbe disfatto l’intero impero. Coloro che si erano formati allo Staatgymnasium fecero ritorno portando con sé un desiderio di rinnovamento, andando inconsapevolmente incontro a una cocente delusione e infine abbandonando la città. «Però avevano imparato il concetto di libertà», ribadisce Bressan concludendo. «La nostra città si compone di una complessità di linguaggi e culture di cui andar fieri – osserva Devetag – dobbiamo essere orgogliosi della cultura goriziana. È dal connubio fra Gorizia e Aquileia che si è costituita la Mitteleuropa».
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