AL TEATRO VERDI
Gorizia, ‘Otello, di precise parole si vive’: la tragedia di Shakespeare riscritta al femminile

Lella Costa porta in scena un monologo intenso che indaga il patriarcato, la violenza di genere e il potere della parola nella rilettura contemporanea.
Ancora una volta un dramma che ruota intorno a un personaggio femminile. Dopo “Molto rumore per nulla” andato in scena a novembre - in cui la parola era strumento di potere - ecco una tragedia incentrata sul femminicidio, dove il termine “parola” compare persino nel titolo. Novanta minuti di monologo durante i quali Lella Costa ha tenuto col fiato sospeso il pubblico del Teatro Verdi, nella serata di mercoledì, con lo spettacolo “Otello, di precise parole si vive”. Una drammaturgia curata dalla stessa attrice insieme al regista Gabriele Vacis, in cui si riscrive la tragedia shakespeariana mettendo in risalto la figura femminile di Desdemona.
Una donna di grande coraggio, che si sposa di nascosto sfidando il padre e si espone per l’amico Cassio, finendo ammazzata per mano di colui che sostiene d’amarla. «Che Otello uccida Desdemona per amore è un principio patriarcale», rimarca Vacis nelle note di regia. Con scene allestite da Lucio Diana e scenofonia di Roberto Tarasco, la produzione Teatro Carcano porta alla ribalta un testo con oltre quattro secoli alle spalle, che tuttavia continua a nutrirsi di tragica attualità. Uno scavo nella parola in cui il nucleo originario resta intatto, aggiornato dagli elementi contemporanei di cui pullulava lo stesso teatro del Bardo. Dove molte allusioni sono comprensibili soltanto al pubblico dell’età elisabettiana, come per il famigerato “signor Angelo”: «Chi cazzo sia, questo “signor Angelo”, non lo sapremo mai», recita l’attrice.
A 25 anni dalla prima edizione ecco una pièce dove una testoriana Desdemona “alla prova” mette in ombra la virilità del maschio grazie alla camaleontica Costa, da sola in grado di interpretare una dozzina di personaggi. È lo stesso richiamo alla canzone di Ivano Fossati “Discanto” – e il verso «di precise parole si vive» - a portare in nuce la parola shakespeariana, intesa come energia che crea e al contempo distrugge. Una polisemia capace d’intessere l’ordito della storia d’amore, ma anche disfare e scompaginare l’ordine interiore del Moro, fino a condurlo per gelosia all’uxoricidio e al caos della morte. «La storia non è neanche cominciata che Otello è già fregato», ironizza Costa nel suo sconvolgente monologo. Contrapponendo alla trasparenza del linguaggio di Otello la scaltrezza ipocrita di Iago come due poli di un unico universo: quell’antinomia racchiusa nel maschio, in grado di sedurre e pure uccidere. Perché «la tragedia si annida nel contrasto, nella contraddizione inconciliabile», ribadisce Vacis.
Il suo Otello è un immigrato dei giorni nostri incapace di cogliere le sfumature di significato, manipolato da Iago che invece è l’emblema del nativo digitale e del cialtrone spregiudicato, un misero «avanzo di galera» che «ha inventato tik tok». Trama folgorante «il cui riassunto potrebbe sembrare una notizia di cronaca» dei giorni nostri, inscenata da quel «lavoratore straniero altamente qualificato» che è il Moro di Venezia in chiave moderna. Nella scenografia inesistente di drappi illuminati l’attrice si perde e si ritrova, metafora di quel labirinto di parole in cui si lascerà avviluppare lo stesso Otello. Mentre nella versione cinematografica di Orson Welles la frantumazione interiore viene evidenziata dal gioco di specchi, qui la magia del teatro ha il prodigio di ricreare il tormento dei sentimenti attraverso il semplice palpito dei drappeggi o la pesantezza del velluto rosso. Ipnotico andirivieni in cui Costa rappa la parodia di “Soldi” di Mahmood cantando «metti solo denaro nella borsa», per poi inscenare il monologo di Iago che a Cipro scopre la sua autentica vocazione: «er cinema».
In questo stratagemma si nasconde il genio di Shakespeare, che narra l’inverosimile «in culo all’esattezza». Con amara ironia si afferma come «oggi le Desdemone non esistono più. Oggi sono forti, coraggiose, lavorano. Ma quale donna, oggi, si lascerebbe trascinare nella follia della violenza di un partner?». Spingendo «personaggi immortali» sul baratro di quell’abisso che è il femminicidio, scopriamo poco a poco che in fondo nulla è cambiato. «Il patriarcato ce l’abbiamo dentro, in profondità – sottolinea il regista – perché comincia da Zeus che si prende tutte le donne che gli piacciono, volenti o nolenti». Ecco allora Otello pugnalarsi citando le ultime parole di Cesare Pavese, che “per amore” decise di togliersi la vita: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono», a mostrare l’insondabile animo maschile, forse solo immaturo.
D’altronde, «ripness is all», ammette Re Lear e lo stesso autore de “La luna e i falò”. Quella di Vacis/Costa è una solipsistica riflessione sulla disparità di genere e le diseguaglianze nel tentativo di andare oltre ogni semplificazione. «Non ne posso più di quelli che semplificano tutto – afferma l’attrice nell’incipit - banalizzano tutto, anche la guerra, l’intelligenza artificiale, il patriarcato. “Complesso è il mondo”, diceva Carlo Emilio Gadda». «Raccontare l’Otello con Lella Costa significa provare a capire cosa possiamo fare, noi maschi, per emanciparci dall’umiliante condizione di oppressori», conclude il regista. Accettare quest’assunto significa trasfigurare una delle tragedie più intense e grandiose in strumento in grado di elevare la donna dalla sua condizione subordinata. Se “Guernica” di Picasso denuncia l’orrore delle guerre invocando un futuro di speranza, “Otello” rinvia attraverso secoli di Storia a quella svolta in cui alla donna non sia più sottratta la «fiducia in cambio di corolle».
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