Gorizia, Franco Branciaroli racconta il suo ‘Sior Todero’ e «Quel teatro che penetra nella carne»

Gorizia, Franco Branciaroli racconta il suo ‘Sior Todero’ e «Quel teatro che penetra nella carne»

L’INTERVISTA

Gorizia, Franco Branciaroli racconta il suo ‘Sior Todero’ e «Quel teatro che penetra nella carne»

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 09 Apr 2025
Copertina per Gorizia, Franco Branciaroli racconta il suo ‘Sior Todero’ e «Quel teatro che penetra nella carne»

L’attore e regista si è raccontato prima dello spettacolo al Verdi: la magia della scena, il peso degli autori, la disfatta del teatro moderno e quel Todero ispirato a Feltri.

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Attore e regista di teatro, Franco Branciaroli nasce a Milano nel 1947, per iscriversi poco più che ventenne alla scuola del Piccolo Teatro e poi lavorare al fianco di giganti come Carmelo Bene, Luca Ronconi o Luca Squarzina. Ma sarà l’incontro con il poeta, scrittore e drammaturgo Testori, a segnare profondamente la sua carriera. Un sodalizio che lo condurrà a interpretare la drammaturgia testoriana entrando nella Compagnia degli Incamminati, per una collaborazione che durerà fino al 1993, con la scomparsa dell’artista di Novate Milanese. Ci ha dedicato un’intervista al telefono prima dello spettacolo che andrà in scena al Verdi di Gorizia martedì sera, approfondendo il carattere del “Sior Todero Brontolon” con la grandezza geniale che contraddistingue un grande del palcoscenico.

Sior Todero versus l’universo femminile. Chi vince? Riescono a spuntarla, le donne?
«Sì, lo zimbellano e lo ingannano, finché il suo progetto fallisce. Ma le donne in Goldoni vincono sempre, perché non ama gli uomini. Rimase sorpreso dal successo che ebbe lo spettacolo, e soprattutto dalla simpatia che in realtà suscitò questo vecchio, che lui aveva dipinto come un mascalzone, una persona assolutamente negativa. Invece il teatro spesso rende simpatico il cattivo. L’esempio più clamoroso è “Riccardo III” di Shakespeare, che nonostante tutto rimane “simpatico”. Goldoni rimase sorpreso da questo successo, perché le sue preferenze furono sempre rivolte alle donne. Di fatto Todero sta pochissimo, in scena, entra solo tre volte. Si può dire che in totale stia una ventina di minuti. È un ruolo che gli attori protagonisti non fanno volentieri, a parte Cesco Baseggio, che era veneto ed è stato anche il nostro tormento scolastico. Poi l’ha interpretato Gastone Moschin e un inespressivo Giulio Bosetti».

«Una pièce in cui il protagonista rischia grosso. Se non riesce a trovare un sistema per esaltarne la figura, viene distrutto, perché è una parte piccola. Il personaggio centrale è Marcolina, che recita come un fiume dall’inizio alla fine, e poi ci sono altri come Pellegrin, Desiderio, eccetera. Nelle prime repliche non avevo compreso bene come realizzare il personaggio, poi l’ho caratterizzato in maniera estrema. Ci vuole una grossa caratterizzazione, anche violenta, perché lui non dev’essere simpatico, deve solo risultarlo. Quindi ho cercato di farlo diventare un personaggio molieriano. Fra i testi di Molière, ad esempio, ce n’è uno che è molto simile, che è “L’avaro”. Infatti, una delle caratteristiche di Todero è essere avaro. I personaggi di Molière sono brutali, molto violenti, ma nonostante tutto simpatici. Per Todero è necessario tener presente quel tipo di carattere, e non il Goldoni di maniera, altrimenti si perde, perché è una parte ridotta. Infatti, non si propone quasi mai».

Lei ha una sua marionetta?
«Le marionette rappresentano i doppi, mentre io sono il capocomico di una compagnia di marionettisti, non ne manovro nessuna».
Questa è la seconda volta che torna a Gorizia, dopo “I ragazzi irresistibili”…
«Sì, perché subito dopo ho recitato nel “Todero”. “I ragazzi irresistibili” verrà ripreso l’anno venturo con Orsini, se siamo ancora vivi tutti e due. Probabilmente può considerarsi uno degli spettacoli più belli del dopoguerra».

Dal suo punto di vista, com’è il “Sior Todero”?
«Vuol sapere se ha un rapporto con la contemporaneità? Io reputo il teatro una forma di comunicazione molto primitiva, per certi versi ormai quasi incomprensibile. Questo spettacolo ha un successo incredibile, eppure è tradizionale. Questo dimostra tragicamente un sospetto: tutta la regia del Novecento, a cui ho preso parte con registi grandissimi, non aveva lo stesso successo di questo per un motivo preciso. Per “I ragazzi irresistibili” si tratta di una messa in scena normale, così com’è scritto. Mi viene il sospetto che il teatro, come mi diceva Testori, sia molto semplice. Vince il teatro dei drammaturghi che sono penetrati nella carne della gente. Poco importa se la scena è così o in altro modo. Il teatro è in mano agli attori, che sono i veri interpreti di questi autori. È inutile cercare strade interpretative diverse, come invece accade da vent’anni a questa parte. Spesso è come obbligare il pubblico a una noiosa lezione universitaria. E invece, fai queste cose semplicissime, e la gente corre, come dopo un lungo viaggio nella neve e al gelo. Questo accade anche per “I ragazzi irresistibili”, vedi delle facce contente che sembrano dire “Ah, ma allora il teatro è questo!”. Son costretto a pensarla come Testori: il teatro lo fa l’autore, e l’attore, che è molto legato all’autore. Con Testori in scena non c’era niente, eravamo arrivati al limite massimo di spoliazione. C’era solo una sedia, nient’altro. C’era però un autore che in certi testi arrivava al cuore. Perché usava la sua lingua, come ogni autore usa i suoi mezzi. Anche Beckett lo fa, io ho recitato un “Finale di partita” meraviglioso, mi piaceva da morire».

«Basta che l’attore comprenda realmente ciò che vuole l’autore. Beckett non ha mai permesso di fare un “Aspettando Godot” con due sorelle, come accadde in Italia quando era già morto. Venne fuori un putiferio, gli eredi tennero duro. Beckett aveva la fortuna - come Stravinskij - di vincolare le battute al modo di farle. Si era creato attori suoi, come Roger Blin – attore del cinema francese, primo a mettere in scena Beckett – e ha cercato di imbrigliare i personaggi sulla carta mettendo le indicazioni di pausa, lunga pausa, breve pausa. Tornando al Todero, per trovare questa caratterizzazione mi sono ispirato anche a Vittorio Feltri. Pronuncia un saltellato polemico che fa così (imitando Feltri e Sior Todero, ndr), ma l’ho trovato dopo. Ho dovuto sperimentare la non completa riuscita di questo personaggio, che avevo reso con la mia voce e non funzionava. M’accorgevo che non “morsicava”. Ho patito in prima persona, la faccenda. Allora m’è venuto questo saltellato di Feltri. Appena l’ho fatto così è esploso. Pensa che cos’è il teatro!».

È una magia, bisognerebbe insegnarla anche nelle scuole.
«Ma no, come ti dicevo prima, il teatro è una roba finita, non c’è più. Il teatro rimane, come sosteneva Testori, una roba pesante, noiosa. Ai tempi di Goldoni c’erano altri drammaturghi. Non grandi come lui, ma andavano benissimo. Perché era l’unica forma espressiva esistente. Oggi il teatro è così noioso, rispetto ai mezzi di divertimento, che per poter centrare l’obiettivo devi essere un genio. Devi essere Neil Simon, peraltro nato quasi un secolo fa. Oppure Beckett. Perché ormai il mestiere del drammaturgo teatrale non funziona più. Testi anche discreti non bastano più. Ogni tanto capitano però queste gemme. Oggi è inutile andare nelle scuole, lo studente dorme. Non vale solo per il teatro. Anche la grande letteratura di Tolstoj è tutto un mondo che non c’è più. Prova a mostrare ai ragazzi “La vita è sogno” di Pedro Calderón de la Barca, capolavoro mondiale in versi da quattro ore, ti garantisco che dopo un quarto d’ora escono. Mentre l’attore che parla nel monologo, quello non è teatro. Il teatro purtroppo è un’altra cosa. E i ragazzi non leggono più, non sono più capaci. Se gli dai in mano “Guerra e pace”, alla decima pagina chiudono. Se dovessero leggere la Morante, non ce la fanno, si annoiano, non apprezzano la bellezza. Siccome non leggono, non ascoltano neanche. È un altro mondo. Qui con “Sior Todero” non si chiacchiera, ecco perché gli studenti si divertono. La battuta più lunga sarà di tre righe. È il classico teatro che è tutta azione. Il teatro non è un signore che si svuota l’anima».

Be’, io davanti al monologo “Lei dunque capirà” di Magris ho pianto dall’inizio alla fine. L’attore non si svuota l’anima, ma il teatro la tira fuori al pubblico. Non trova?
«Ma no, non sono d’accordo. Perché devo assistere a un monologo in cui mi racconti i tuoi problemi, o come tu vedi il mondo? Allora mi leggo Heidegger! Se m’imponi di starti a sentire, già partiamo male, perché in realtà il pubblico può fischiarti. Non lo fanno più, ma una volta era così. Invece nel monologo c’è un atteggiamento didascalico, non è teatro. Il teatro è violenza, è cattivo. Il teatro buono non esiste. Il teatro, cos’è? Una piazza, dove c’è un telo che dà forma a una bocca. Si chiama “boccascena”, che dirà delle cose. Ma il telo sta a indicare che quelle cose non sono belle, vanno nascoste, si diranno di notte, non a mezzogiorno. Perché di notte? Perché rappresentano la verità, che è brutta: questo, è il teatro. Il sipario si apre e la bocca dirà cose in genere molto molto cattive. Il teatro nasce con la parola “tragedia”, è stato inventato dai greci. Goldoni chiama Todero “violento”. Poi si è stupito che al pubblico piaccia il violento. Ma al pubblico piace proprio il cattivo. Anche per i romanzi, a parte “Don Chisciotte” e “L’’idiota” di Dostoevskij, hai mai visto un romanzo che parla del buono? T’annoi subito. Hai mai visto un film dove c’è il buono? C’è, ma fa una brutta fine. Il male è l’essenza del teatro. Il teatro parte da un sacrificio di sangue. Nasce da lì, dal capro ammazzato, che una volta era un uomo. Basta, vado a mangiare!».

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