Gorizia, 50 anni di Clu nel film di Erika Rossi: «È qui l'eredità di Basaglia»

Gorizia, 50 anni di Clu nel film di Erika Rossi: «È qui l'eredità di Basaglia»

l'intervista

Gorizia, 50 anni di Clu nel film di Erika Rossi: «È qui l'eredità di Basaglia»

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 20 Mar 2024
Copertina per Gorizia, 50 anni di Clu nel film di Erika Rossi: «È qui l'eredità di Basaglia»

In occasione dei 50 anni della cooperativa intitolata a Franco Basaglia, giovedì sera verrà proiettato il docu-film con la regista al Kinemax.

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Regista e autrice di documentari selezionati in diversi festival internazionali, Erika Rossi nasce a Trieste nel 1974, sviluppando presto grande sensibilità per la settima arte e per le tematiche a impronta sociale. Al 2019 risale il suo primo lungometraggio “La città che cura”, presentato in oltre 50 sale italiane. Insieme a Peppe Dell’Acqua e a Massimo Cirri è autrice del volume “Tra parentesi, la vera storia di una impensabile liberazione”, testo dell’omonimo spettacolo teatrale di cui cura la regia - prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia - che ha all’attivo oltre 50 repliche in tutta Italia.

Dal 2021 è tra gli esperti formatori del progetto “Operatori di Educazione visiva a scuola” del Piano Nazionale Cinema. In occasione dei 50 anni della “Clu Franco Basaglia” giovedì sera verrà proiettato il docu-film “50 anni di Clu” presso il Kinemax di piazza Vittoria a Gorizia, a conclusione del quale la regista incontrerà il pubblico presente.

Erika Rossi, documentarista e scrittrice triestina, come altro ti potresti definire?
Scrittrice no. Ho avuto il piacere e la fortuna di scrivere questo testo insieme a Peppe Dell’Acqua e Massimo Cirri, incentrato sulla riforma basagliana, ma non sono scrittrice. Sono autrice e regista che si occupa di documentari. Il mio esordio si è rivolto alla rivoluzione basagliana e al suo retaggio.

Com’è nata la collaborazione con Massimo Cirri e Peppe Dell’Acqua?
Con Peppe ho collaborato negli anni in cui è stato direttore del Dipartimento di salute mentale, lo conoscevo da tempo. Massimo Cirri lo conoscevo dai tempi milanesi, quando lavoravo alla Rai di Milano, io al secondo piano e lui al terzo. In occasione del quarantennale della legge nel 2018 era nata l’idea di scrivere uno spettacolo teatrale, e hanno pensato a me. Lo spettacolo è “[Tra parentesi]. La vera storia di un’impensabile liberazione”, scritto insieme a loro due, di cui curavo anche la regia. Un prodotto del territorio, riproposto in occasione del centenario di Basaglia, dove Dell’Acqua e Cirri conversano in scena.

Mentre parlano, alcuni frammenti di video supportano la narrazione. Con Cirri abbiamo invece pensato a questo documentario sulla Clu, dove Cirri davanti alla macchina da presa fa da testimonial e dialoga con i fondatori. Cirri incontra i soci fondatori della Clu che raccontano un pezzo di sé, a testimonianza che la cooperativa ha avuto un ruolo fondamentale nelle loro vite.

Ho letto che ti sei specializzata all’Università Cattolica di Milano. Per quale motivo hai scelto proprio la Lombardia, per completare i tuoi studi?
Quando mi sono laureata in comunicazione a Trieste cominciavo ad avere un interesse per la narrazione audiovisiva, e scelsi di iniziare un master alla Cattolica. C’erano docenti molto interessanti, che mi hanno messo in contatto con Fabio Fazio e altri personaggi del mondo televisivo con cui ho potuto collaborare. Il coordinatore scientifico realizzava percorsi monografici che rappresentavano una porta d’accesso a stage di lavoro, e in quest’occasione ho incontrato Fazio. Io e un mio collega seguivamo uno stage a La7, dove Fabio sarebbe dovuto partire col suo programma. Aveva un gruppo di autori che lo seguiva a “Che tempo che fa”. In seguito, andai alla Rai a fare altro.

Perché hai scelto d’incentrare il tuo interesse sulla sanità mentale?
È un interesse che risale alla tarda adolescenza, ho sempre prestato attenzione agli eventi della Trieste degli anni Settanta. Poi mi sono accorta della portata rivoluzionaria di Basaglia, che è stato in grado di attirare al suo seguito persone da tutto il mondo. Una riforma che non aveva solo importanza in merito alla restituzione dei diritti, ma anche per la capacità di coinvolgere i cittadini. Capire come avesse coinvolto la città intera mi portò a decidere di approfondire la questione, dopo aver maturato l’interesse per il linguaggio audiovisivo.

Mi sono recata di persona a conoscere gli individui coinvolti. Ho collaborato con loro nei primi anni Duemila e ho avuto modo di conoscere il lavoro dei servizi. Così ho capito che c’era tanto da raccontare, spingendomi a costruire il lavoro realizzato nel 2012, anno in cui ho lasciato Milano. La nostra regione offriva più sbocchi per la produzione documentaria. Nei primi anni del Duemila nasce la Film Commission e il Fondo audiovisivo regionale, enti a sostegno delle cineteche legate al nostro territorio. A Milano manca questo tipo di realtà, mentre io ero interessata a raccontare il mio territorio.

Era il 16 dicembre del 1972, quando venne fondata la prima cooperativa sociale. Da allora quanta strada è stata fatta?
Moltissima. La cooperativa nasce nel ’72 quando le cooperative sociali non erano neanche contemplate dalla legge. Ha inizio una grande avventura che oggi vanta 50 anni. La Clu diventa una realtà grazie a un iter legislativo quasi rocambolesco, nascendo da un gruppo di internati che decidono di far valere i propri diritti in quanto lavoratori. Continua a crescere negli anni, offrendo possibilità d’integrazione e solidarietà, ma anche appartenenza a una comunità, dignità e lavoro.

“Si può fare” è il film di Giulio Manfredonia uscito nel 2008, incentrato sulla legge Basaglia. Ti ha dato ispirazione per il tuo lavoro?
No, ma conosco il film. Era l’unico prodotto narrativo che raccontasse la storia di una cooperativa sociale con la cooperativa Noncello. Non mi sono ispirata perché non ne ho sentito il bisogno, il mio non è un lavoro di finzione. Sono due storie equivalenti, direi.

Le cooperative sociali funzionano davvero? Forniscono supporto adeguato ai pazienti?
Non solo sono convinta di sì. Ritengo che non siano soltanto un supporto alle persone più fragili o in difficoltà, ma costituiscano anche aziende con un Dna, in cui l’inclusione è di grande importanza. Prevedono percorsi di formazione lavorativa e borse di lavoro, che sono strumenti fondamentali per formare. Ci sono più di 20mila cooperative sociali, che rappresentano una fetta importante della nostra economia. E quindi, “si può fare”.

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