l'intervista
Giorgio Colangeli nei panni del Papa a Gradisca: «Io, Ratzinger e la religione»
Martedì sera il debutto regionale dell'opera scritta da Anthony McCarten, sul palco Mariano Rigillo e Giorgio Colangeli nei panni dei due pontefici.
Entrare nel privato di qualcuno, anzi: di uno dei personaggi pubblici per eccellenza. Chissà quanti di noi si sono chiesti cosa pensa, come si esprime, quali sono i pensieri alla base dell’azione di un Papa. Ed ecco che “I due Papi”, domani (martedì 27 febbraio) alle 21 in esclusiva regionale al Nuovo Teatro Comunale di Gradisca d’Isonzo (prevendite un’ora prima dello spettacolo), ci permette di entrare nelle stanze vaticane alla vigilia delle inattese dimissioni di Benedetto XVI a favore di Jorge Maria Bergoglio. A interpretarli, nel testo di Anthony McCarten tradotto da Edoardo Erba, sono rispettivamente Mariano Rigillo e Giorgio Colangeli, diretti da Giancarlo Nicoletti e affiancati da Anna Teresa Rossini, Ira Fronten e Alessandro Giova.
Ma entrare nel privato di qualcuno è anche ciò che spesso accade con un’intervista, momento in cui immagini l’attore seduto nel suo camerino o nella poltrona di casa mentre risponde alle tue domande. E, contravvenendo forse alla sua naturale riservatezza, nella nostra chiacchierata Giorgio Colangeli si è lasciato sfuggire qualche ricordo condito di nostalgica quotidianità. Ci sentiamo alle dieci del mattino perché – come mi dicono dal suo ufficio stampa – è piuttosto mattiniero.
Immagino sia un fatto insolito per il mondo dello spettacolo…
È strano per il teatro ma è il cinema che mi ha portato a questi orari perché spesso ti vengono a prendere presto. Un po’ è una fatica ma poi penso a mio padre che si alzava sempre prestissimo e allora mi pare di star facendo la cosa giusta.
Mi può presentare lo spettacolo dal suo punto di vista?
Siamo sostenuti da un testo scritto molto bene ma capisco che sia molto diverso dal solito confrontarsi con personaggi realmente esistiti e unici come possono essere due Papi. Poi si fanno le prove, ci si documenta e pian piano si mette a punto il personaggio nonostante possa spaventare il possibile confronto con il modello che tutti conoscono. Qui però si parla del Papa in una dimensione non pubblica per cui c’è un margine di immaginazione: al di là della sua funzione si può immaginare il lato umano del Papa ed è questo poi che attrae e affascina, vedere i protagonisti dietro le quinte.
Si è rapportato all’omonimo film con protagonisti a Jonathan Pryce e Anthony Hopkins, scritto dallo stesso McCarten per Netflix?
L’ho visto una sola volta sul tablet perché mi è stato passato dal regista, giusto per documentarmi: non so se sia stato per fuggire un confronto non da poco con Anthony Hopkins (che interpreta Bergoglio, ndr). Spesso i registi propongono, se c’è, la filmografia precedente ma io la utilizzo assai poco, preferisco arrivare alla parte da solo come quando da ragazzo dovevo scrivere un tema e volevo dire qualcosa di originale. Il regista lo ha visto più volte e posso capire che per lui sia utile ma per me poi diventa banale perché gli spettatori ci hanno restituito la sensazione che sia più bello del film perché più coinvolgente e ricco emotivamente. Poi a teatro lo spettacolo è più compatto rispetto alla pellicola dove viene dato ampio spazio a tutto ciò che pesa sulla coscienza di Bergoglio per aver avvicinato il regime militare, cosa che lo fa sentire colpevole e porta i confratelli gesuiti a percepirlo come un traditore: tutto ciò a teatro è raccontato da Bergoglio mentre nel film diventa quasi una storia a sé e si rischia di perdere il fuoco della narrazione.
Ho letto in un’intervista che lei avrebbe preferito la parte del cardinale…
Non avevo grande confidenza con il personaggio di Benedetto XVI, condividevo la sensazione collettiva che fosse freddo, pregiudizio dietro cui si è andati appresso a occhi chiusi. Mi sono poi reso conto che non c’era alternativa per la fisicità che io e Mariano abbiamo e poi ho capito che Ratzinger era in realtà il personaggio più ricco perché contraddittorio, cambia nel tempo e quando l’ho avvicinato ho compreso che era un grandissimo teologo. Spesso viene liquidato con superficialità e questo mi ha fatto riflettere su quanto frequentemente agiamo in questo modo anche rispetto a questioni di maggior valore che finiamo per trascurare.
Per prepararsi al ruolo ha anche letto dei testi di Ratzinger.
Un libricino, letto per caso forse agendo in maniera approssimativa. L’ho avvicinato durante una visita al Santuario di San Benedetto a Subiaco, “Benedetto e l’Europa”, una raccolta di discorsi di carattere didattico che ho letto più volte e che mi ha fatto riflettere su questioni fondamentali come l’aborto, tema che in gioventù ho cavalcato disinvoltamente. Ne ho apprezzato soprattutto il grande rigore e la chiarezza.
Che rapporto ha con la religione?
Ho avuto una grossa educazione religiosa: dalla prima media alla terza liceo classico ho frequentato un istituto di religiosi marianisti, ordine che ha una grande propensione per la didattica. Si tratta di una fase che ricordo con piacere e di cui non mi pento, ma subito dopo era il Sessantotto e mi sono allontanato da quel mondo. Oggi non mi considero credente, credo come dico io e nel libro di Ratzinger si parla appunto del credere come fondamento di un senso di appartenenza che sarebbe importante ma che non pratico.
In questo spettacolo lavora con un suo coetaneo, sul set di “C’è ancora domani” aveva dei colleghi più giovani: come sono i rapporti fra attori della stessa generazione e di generazioni diverse?
Con Mariano non siamo proprio coetanei, abbiamo dieci anni di differenza ma siccome io ho iniziato a lavorare molto tardi, attorno ai trent’anni, e lui invece subito dopo il diploma, professionalmente lo considero un maestro, una persona da cui apprendere qualcosa. Poi in realtà è un mio tratto di carattere: “interpretare” il ruolo del discepolo non mi espone più di tanto, forse è un modo per fuggire dalla responsabilità di essere io a dover insegnare anche se poi sono quarant’anni che lavoro. Continuo ad avere il “complesso del bastardo” perché non ho fatto una scuola di recitazione ma ho imparato il mestiere facendolo. Oggi poi è invalso l’uso di chiamare maestro chiunque abbia una certa età ma nella sostanza è più difficile rispetto a un tempo che un giovane voglia imparare da qualcuno e se questo è un bene perché si è responsabili della propria formazione, d’altro lato manca il contatto umano.
Quindi sul set come è andata?
Ho avuto un rapporto particolare con Paola Cortellesi che anagraficamente non è giovanissima ma sembra una ragazza: ho sentito che dovevo darle retta, c’è stata un’inversione di ruoli che non mi ha dato assolutamente fastidio perché, nella sua gentilezza, era molto autorevole. I giovani del set erano tutti bravi ma non abbiamo avuto un rapporto particolare perché interpretavo un burberaccio che non aveva nulla di affettuoso verso i nipoti e poi ho fatto solo cinque giorni di riprese, tanto che certi attori non li ho nemmeno incrociati mentre altri li ho visti “da morto” come personaggio (ride).
Maggiore affettività si respirerà in “Dall’alto di una fredda torre” con cui prossimamente sarà al cinema: si tratta di una storia che pone un caso di coscienza molto difficile.
Come in altri testi di Filippo Gili, che ne ha curato la trasposizione cinematografica, il protagonista vero è la famiglia messa in questo caso a cimento da una situazione singolare e grave. Il fatto di lavorare insieme porta alla frequentazione: con Vanessa Scalera e con il regista Francesco Frangipane già ci conoscevamo, mentre Edoardo Pesce non lo avevo mai incontrato ma siccome è una persona comunicativa abbiamo subito colmato il distacco e siamo riusciti a creare il giusto gruppo.
Quale ruolo che non ha ancora interpretato vorrebbe affrontare?
Tra cinema e teatro i ruoli che mi piacciono sono quelli del medico, il sacerdote, il detective: hanno in comune il fatto di essere ansiolitici, danno sicurezza. In generale mi piacciono i ruoli che cambiano come quello dei padri, spesso assenti come capita nella realtà. Un caso estremo è stato “Aria salata” in cui il padre esprime una sensibilità inattesa: non si pente dei crimini che ha commesso, è un duro ma di fronte al figlio è affettuoso e consapevole delle sue omissioni. Non c’è un ruolo preciso che mi manca, continuo a fare le cose che mi piacciono. Anche qui è un tratto caratteriale: faccio sempre in modo di sentire che non mi manca niente.
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