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I fotografi che hanno raccontato il tempo, 5 storie di Mario Calabresi a Gorizia
A dieci anni dalla sua prima uscita, l'ex direttore della Stampa aggiorna il suo volume dedicato a grandi fotografi che hanno raccontato il mondo.
Un fiume di immagini e di storie, sul palco di èStoria a Gorizia, fluisce nell’incontro “A occhi aperti” dedicato alla riedizione, a dieci anni dalla sua prima uscita, dell’omonimo volume in cui Mario Calabresi racconta le vite di fotografi di fama internazionale. Lo fa dedicando uno spazio maggiore alle donne: «Vorrei partire da un ricordo e un omaggio a Andrea Rocchelli detto Andy, ucciso esattamente dieci anni fa, a soli trent’anni, in Donbass, lì dove iniziavano gli scontri che sarebbero durati anni e che ci hanno portato oggi a una guerra di cui non vediamo la fine».
«A ucciderlo - spiega - è stato un colpo di artiglieria dell’esercito ucraino alla vigilia del suo ritorno a casa, poco dopo aver parlato con la moglie nel giorno del compleanno del figlio che non ha avuto modo di salutare. Era molto attento alle persone, ha raccontato le guerre dimenticate, non è mai andato a cercare la prima linea ma era attento alle storie delle persone ai più fragili». A testimoniarlo, uno scatto che ritrae un gruppo di orfani accolti da una famiglia ucraina in una cantina, dove li “conserverà” insieme alle provviste per il tempo necessario alla loro salvezza.
E poi il viaggio del giornalista, già direttore de “La Stampa”, e “Repubblica”, prosegue con Steve McCurry, «incontrato in Sardegna il tempo di finire una forma di pecorino e due bottiglie di vino. Lui afferma che per essere credibile devi essere in mezzo alle cose: era il 1983 quando, lavorando per il National Geographic, decide di fare un reportage sulla stagione dei monsoni nel Sudest asiatico. Per fotografare veramente un alluvione, dopo aver cercato degli espedienti, decide di immergersi nell’acqua nonostante fosse incredibilmente sporca».
«Ritrae così un sarto - prosegue il giornalista, dialogando con Martina Delpiccolo al Teatri Verdi - che porta via con sé una macchina per cucire tutta arrugginita e questo scatto arriva in India, viene visto dall’azienda produttrice della macchina per cucire che decide così di fargliene avere una nuova. Di questa impresa diceva essergli rimaste le cicatrici, nel senso letterale del termine: davanti a me si toglie la maglietta e mi mostra i segni lasciati dalle bruciature che si era provocato per togliersi dalla schiena le sanguisughe che gli si attaccavano quando stava nell’acqua 8 ore al giorno».
Nonostante la sua esperienza in giro per il mondo, Susan Meiselas viene ricordata da Calabresi per le foto ripetute negli anni a un gruppo di amiche conosciute al suo arrivo a New York, poco più che ventenne: la fotografa gli vieta categoricamente di usare per la copertina una sua foto dove una delle tre ragazze non riesce a fare il pallone con la chewing gum e rischierebbe di perderne l’amicizia.
Avventurosa la vicenda del reportage che Paul Fusco dedica, nel 1968, al funerale di Bob Kennedy quando decide di immortalare le migliaia di persone che seguono la bara nel suo viaggio da New York a Washington. Felice per il lavoro svolto, gli viene rifiutato dal direttore del giornale e così sarà per gli anni successivi finchè, in occasione del trentennale dell’avvenimento, ottiene un aiuto insperato da una giovane e inesperta archivista: da lì in poi queste foto diventano uno dei servizi più famosi, con mostre negli Usa e anche a Roma.
A chiudere la sequenza è Letizia Battaglia, unica dei dodici fotografi presenti nel libro che lui non ha avuto modo di conoscere. «Dal 1974 al 1992 Letizia ritrae i morti di mafia perché lavora nel periodo in cui veniva negata, minimizzata. Ogni giorno pubblica su “L’Ora” di Palermo degli scatti per dimostrare che la mafia c’è, è nelle strade. E lei era l’unica donna fra soli uomini, fossero criminali, poliziotti, testimoni: difficile farsi strada, anche perché era un’originale, una hippie che già si tingeva i capelli di mille colori. Quando arriva il nuovo capo della squadra mobile Boris Giuliano la appoggia ma purtroppo lui che stava lavorando per dimostrare i flussi di soldi e droga fra Sicilia e America, viene ucciso nel 1979».
«Non riesce a fotografarlo quando lo uccidono, è troppo addolorata: allora fotografa la sua scrivania con telefoni, registratore, radio, taccuini. Non riesce a scattare nulla neanche in via D’Amelio, anzi: dopo le stragi del 1992 smette di fotografare e lascia Palermo. Ho intervistato i nipoti Marta e Matteo, ho chiesto loro quale fosse la foto più significativa per lei e mi hanno fatto vedere questa, che ritrae un gatto che segue lentamente un topo. Per lei, che aveva anche lavorato come assessore comunale, era un simbolo del degrado, del mondo al contrario perché qui il topo non scappa dal gatto: sono entrambi sazi della spazzatura che invade la città, camminano tranquillamente ed era quindi la miglior denuncia delle condizioni in cui versava Palermo».
«Ma vorrei finire con questa - conclude la firma - il 6 gennaio 1980, mentre sta tornando a casa con la figlia, vede un’auto ferma e una piccola folla, con un corpo che viene estratto delicatamente dall’abitacolo. Era un uomo che stava andando a messa, tenuto dal fratello: era stato ucciso il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, che voleva rompere i legami fra la Democrazia Cristiana e la mafia. Questo è secondo me un messaggio nuovo: quella volta era testimonianza di una sconfitta ma oggi, a distanza di anni, è segno di una vittoria visto che quel fratello che lo sosteneva è l’attuale presidente della Repubblica».
Foto Bumbaca
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