l'editoriale
Un Primo Maggio ancora inconsapevole
Pensavo a cosa avrebbe potuto e dovuto contenere un editoriale. La sfida è evitare la banalità, né riempirsi la bocca di retorica ormai in disuso.
Ieri sera pensavo alla festa odierna. Non solo al Primo Maggio, perché la mia formazione umanistica e il mio sostrato sociale e culturale mi portano a ragionare, allo stesso tempo, anche di San Giuseppe artigiano. Pensavo a cosa avrebbe potuto – e dovuto – contenere un editoriale. La sfida è evitare la banalità e non incorrere in profezie d’alto rischio di incapacità di visione e irrealizzabili né riempirsi la bocca di retorica ormai in disuso.
Mi sono confrontato, nella speranza di trovare conforto, nel collega che, tra queste pagine, si firma S.F. e, ripercorrendo quanto scritto l’altro anno, invitando alla moderazione del consumo d’alcool e alla ricerca di una visione più limpida sia a destra che a sinistra, raccontando anche il triste episodio che vide protagonista il parroco di San Canzian d’Isonzo, don Mario Trampus, il primo maggio 1947, non è saltato fuori nulla. Utilizzo una perifrasi perché è proprio così: nulla, se non un titolo che avrebbe potuto far andare in escandescenza molti. «Di compagni beoni e camerati furiosi». Sia chiaro, potrebbe andare bene anche al contrario. Ma no, forse un titolo del genere non andrebbe bene.
Perché, sbaglia? Perché, dice qualcosa di fuori luogo? Forse i termini sono un po’ forti, certo. Ma se fa innervosire qualcuno, evidentemente o ha un fondo di verità, o la verità c’è tutta. Ah, chiaramente non avremmo escluso nemmeno i democristiani ma l’accezione del termine in sé nella contingenza lo giustifica dall’esonero.
Quindi? È forse cambiato qualcosa dall’altr’anno? Abbiamo compreso meglio le necessità dei lavoratori, italiani e stranieri? Abbiamo migliorato la società? Ci siamo rimboccati le maniche per evitare che il prossimo si trasformi in un nemico da abbattere o un leviatano da cui fuggire? Domande retoriche, qui si scade veramente nel banale.
Il consumo di alcool procede, è evidente, e la rabbia pure. Anche qui, da ambo i lati. A risolvere nulla, chiaramente, mentre ci si accorge, nella Festa dei Lavoratori (e le lavoratrici?), che il livello salariale – su cui hanno puntato il dito vari – non è adeguato, soprattutto nella città simbolo dell’industrializzazione regionale. Anche oggi, tra le orazioni ufficiali, probabilmente mi sentirò un pesce fuor d’acqua. Come ai grandi convegni sul giornalismo di oggi dove a parlare è il pensionato d’oro di turno che punta il dito su quelle categorie – spesso giovani e precari, non chiamiamoli freelance, per piacere – che, nello sfruttamento che è “d’obbligo per fare gavetta”, a volte ritengono di non dover sottostare a regole redazionali ormai fuori da ogni grazia. Ecco, verba volant e così anche le grandi prolusioni.
Prolusioni perché tali rimangono e i problemi restano. Alla fine, senza scomodare Giuseppe Tomasi da Lampedusa, basta citare il buon De André: «Il sistema sicuro è pigliarti per fame», e per fame è il diritto, al lavoro, alla giusta retribuzione, allo sciopero, a svanire nel nulla.
Mi sentirò un pesce fuor d’acqua con l’innata mia capacità di guardare con ottimismo al futuro. Forse, almeno il Primo Maggio, ce lo meritiamo.
Primo Maggio a Monfalcone: non mi si schiodano dalla testa alcune parole chiave che raccolgono insieme principi da tenere saldi e valori indissolubili. La mia memoria torna al Giubileo del Lavoro organizzato dalle diocesi sorelle del Friuli Venezia Giulia e ospitato nello stabilimento Fincantieri nel 2015. Dignità del lavoro e trasformazioni sociali, globalizzazione e diritti, qualità della vita e del lavoro, accoglienza e integrazione. Un mix di peso e importante, che interpella tutti. Quanti "passi in avanti" abbiamo fatto?
Non solo il cantiere navale, ma tutte le aziende che costituiscono la realtà industriale monfalconese sono dei "luoghi simbolo" della molteplicità e diversità del lavoro, vista la presenza di numerose etnie e il contesto sociale che assume sempre di più un sapore extra europeo.
Mi domando: cosa non va perso? O meglio: Cosa va recuperato al più presto? Ogni uomo attraverso il lavoro realizza se stesso. Quindi, la possibilità di lavorare per tutti dev'essere quella di farlo nelle condizioni in cui siano rispettati le voci che lo costituiscono, l'ambiente, la salute, la sicurezza, la giustizia e le pari opportunità. Il posto di lavoro sia un luogo in cui la persona possa realizzarsi dove la dignità è fondamentale e dove l'umanità - espressa nelle sue molteplici forme - sia uno degli assi portanti verso il Lavoro del futuro, testimonianza del progresso frutto dell'intelletto, delle forze e dell'azione costruttiva di tutti. I Lavoratori stiano "in testa" e non all'ultimo gradino, in coda. Senza di loro non andiamo da nessuna parte. Politica e imprenditoria non restino sorde o - peggio ancora - afone su tutto questo.
Foto Alessio Damato/Wikicommons
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