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Diva, eros e passioni: Jean Paul Bled narra l'Angelo azzurro a èStoria

Il regista Josef von Sternberg e l'attrice Marlène Dietrich raccontati dallo storico francese, tra erotismo e cinema visionario.
L’irrazionale è dagli albori un tema sul quale ci si interroga, si indaga, talvolta si fugge altre volte se ne è inesplicabilmente attratti. È sempre difficile capacitarsi del perché un uomo o una donna possano compiere atti del tutto al di fuori della loro natura, per rabbia, tristezza, o perfino per amore. È il caso del Professor Rath: a parlare del capolavoro di Josef von Sternberg, austriaco naturalizzato statunitense, è stato lo storico francese esperto di tematiche austro-tedesche Jean Paul Bled - in dialogo con Paolo d’Andrea ieri sera all'èStoria Film Festival di Gorizia – che nel 2019 ha scritto una biografia su Marlène Dietrich, "L'angelo azzurro" del cinema anni Trenta.
Quest'ultima è la musa del film e grande agognato amore dello stesso Stenberg. Rath, uno stimato docente di un liceo di una piccola città tedesca, diverrà schiavo delle sue passioni e per esse si lascerà morire lentamente, portando alla rovina la sua vita e perdendo un senso nell’esistenza. ”Un personaggio che mi ha sempre incuriosito, tutti gli storiografi hanno i lori giardini segreti - ha spiega l’autore francese - una voce di contralto dai sottotoni erotici, una peculiarità che lei faceva funzionare a sua favore”. Nel libro narra l’incontro di tre personaggi fondamentali: l’autore del romanzo, Heinrich Mann – fratello del celebre Thomas Mann -, il regista von Sternberg e l’attrice Dietrich.
Il primo personaggio ha scritto un romanzo di forte impostazione sociale e politica, che ha impostato come critica alla società tedesca dell’epoca, sotto forma di un’amara satira: una contestazione politica però rimossa dal secondo personaggio, Sternberg, che ha voluto approfondire l’aspetto dell’ossessione di un uomo che per essa ha perso ogni cosa. “Nel 1929 Stenberg non ha la concezione della situazione politica tedesca, il nazismo era agli albori - chiarisce Bled -, ma ciò non nulla toglie alla qualità di questo film”. E poi Marlène Dietrich, che nessuno voleva nel film se non lo stesso Sternberg.
Questo lottò per averla come protagonista, imponendo tale decisione alla produzione, convinto da un “colpo di fulmine” che lo colpì appena la notò nella commedia Due cravatte di Georg Kaiser. Un’attrice fino a quel momento sconosciuta ai più, ma che inaugurò con quel film l’inizio di una brillante carriera che la porterà anche davanti ai riflettori di Hollywood. Paolo D’Andrea ha definito Sternberg un “genio della rappresentazione cinematografica” sicuramente tra i “dieci più grandi registi della storia del cinema”, in grado di rappresentare “un mondo altro rispetto alla realtà, visione pure, in un cinema che è il più grande esempio del mondo dell’ossessione, soprattutto nel campo sessuale”.
Fulcro di tale ossessione è la figura femminile di Marlène, una donna dalle reazioni “enigmatiche, indecifrabili, anaffettive”, che illude il professore e lo rende schiavo di un’emozione che lo umilia di fronte al decoro di una piccola realtà borghese di cui lui stesso è stato il principale osservatore e custode. Così come durante i riti bacchici gli antichi greci perdevano il senno e potevano compiere i più scellerati atti, allo stesso modo un uomo, in balìa di un sentimento di atroce solitudine e ammaliato dal calore della dolcezza, può perdere sé stesso e agire al di fuori di quello che è stato il suo tracciato fino a quel momento.
È inoltre un film nel quale è evidente la transizione in atto dal muto al sonoro: “Sternberg aveva già girato dei film sonori in America ma l’Europa era indietro di qualche anno - spiega D’Andrea – e girerà quindi quello che fu uno dei primi film sonori tedeschi”. Nonostante la transizione, era ancora estremamente legato alla rappresentazione visiva: “Un regista della visione e non del racconto” che “utilizza simboli e ripetizioni come se il film fosse composto in rima”. In un clima di “sovrabbondanza di simboli e magniloquenza visiva”, accompagnato da una sapiente ponderazione dei silenzi e dei suoni, questo film “ci porta nel cuore della visione filmica dell’autore, raccontata da lui stesso in termini favolistici, trasportando su pellicola la follia della vita, offrendo così una lezione senza tempo”.
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