gorizia
Le date nere del giornalismo aprono èStoria, quel racconto da Mostar a Mogadiscio
Nel primo incontro del XX Festival della storia, i due ospiti hanno ricordato il trentennale di due punti di non ritorno per la stampa regionale e italiana.
Sporcarsi le scarpe per il dovere di informare. Altrimenti detto: per assicurare la pace e la democrazia. Sono semplicemente questi i motivi per cui un giornalista decide di diventare inviato di guerra. Nel primo incontro di èStoria a Gorizia Giovani Cristiano Degano, presidente dell’Ordine dei Giornalsiti del Fvg, e Fabiana Martini, segretaria del Premio giornalistico Marco Luchetta e portavoce per il Fvg dell’associazione Articolo 21 (attiva sul tema della libertà di stampa) hanno ricordato il trentennale di due punti di non ritorno per la stampa regionale e italiana.
Nessun eroismo, nessun desiderio di primeggiare. A ingannarlo, semmai, la distorta percezione di poter essere immune dalla parte più cruenta di ciò che si sta documentando e l’illusione di essere immortale, indipendentemente dalla presenza di eventuali dispositivi di sicurezza. Era il 28 gennaio del 1994 quando a Mostar una granata è esplosa nel cortile di un orfanotrofio: ed è lì che gli inviati della Rai Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Ota hanno trovato la morte, mentre raccontavano la storia dei “bambini senza nome” resi orfani dalla guerra che loro stavano facendo conoscere in tutta la Penisola.
«Tutti noi ricordiamo l’inizio del conflitto, con i carri armati schierati. Poi ci siamo un po’ distratti e questo episodio ci ha risvegliati. Lo stesso sta accadendo adesso perché la guerra ci riguarda sempre tutti e dal 7 ottobre, sulla Striscia di Gaza, sono caduti oltre 120 colleghi. Quella volta si sono sentiti anche commenti sconvenienti come “se la sono cercata”: in verità avevano scelto di andare a raccontare la guerra per proseguire il loro lavoro, per dire che nei Balcani si continuava a soffrire e che tutti erano nel mirino». Così Fabiana Martini in uno degli interventi che hanno inframezzato la visione di spezzoni del documentario “Mostar 30 anni e oltre” diretto da Piero Pieri.
L'opera, ancora visibile su RaiPlay, è stata realizzata per commemorare il trentennale dalla tragedia che ha inizialmente avuto il merito di aprire gli occhi sulla precarietà delle condizioni di lavoro degli inviati di guerra, sguarniti di equipaggiamento e preparazione per affrontare le situazioni che si potevano verificare. Le immagini dei colleghi del Tg3 che danno la notizia della tragedia si affiancano ai ricordi di Bruno Vespa, allora direttore del Tg1, pronto a confessare l’iniziale diffidenza della sede centrale della Rai verso una redazione di periferia che, però, è risultata essere il miglior avamposto per restituire il polso della situazione che si stava vivendo nei Balcani.
E poi ancora le voci di Paolo Rumiz, Ennio Remondino, Fulvio Gorani per finire con Carolina e Andrea Luchetta, entrambi instradati dall’esempio del padre a occuparsi dell’altro sia occupandosi di accoglienza sia raccontando nuovamente da zone di guerra ciò che accade nel mondo. Un’attenzione che è alla base anche della Fondazione Luchetta che, nei suoi trent’anni di attività, ha aiutato più di 800 bambini curati in Italia per le ferite riportate nelle guerre di tutto il mondo, raccontate da professionisti cui è dedicato il premio giornalistico che quest’anno spegnerà la sua ventunesima candelina con una giuria presieduta da Riccardo Iacona e sette diverse sezioni di concorso.
Ma a soli due mesi da Mostar, il giornalismo italiano conobbe un’ altra tragedia, ancora senza risposta, ancora senza colpevoli: l’omicidio degli inviati del Tg3 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Era il 20 marzo del 1994 e, a trent’anni di distanza, la loro morte continua a essere senza mandanti e a suscitare minacce come quelle ricevute dal giornalista Valerio Cataldi alla vigilia della partenza per la Somalia alla ricerca di risposte.
«Come cittadini dobbiamo sostenere le campagne di sensibilizzazione sulla libertà di stampa perché non c’è democrazia senza informazione: va valorizzata l’informazione indipendente e dobbiamo ricordare che l’informazione va pagata perché troppo spesso ci illudiamo che possa arrivarci attraverso i social» ha concluso Martini mentre il volto di Miran Hrovatin sorrideva nell’ultima immagine del documentario a lui dedicato, proiettato nell’affollata sala del Trgovski Dom.
Foto Sergio Marini
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