Il mondo del giornalismo
Dalle stelle alle stalle, ma con la penna in mano
Perché si continuano a scrivere articoli 'di fumo' o si dà adito al «si vocifera» e al «si dice che»?
Quando ci si tuffa nel vorticoso fiume di lettere che compongono gli articoli giornalistici, prima che esse si muovano nella mente e, poi, sulla carta – o sullo schermo di un pc, che dir si voglia – è necessario, in primo luogo, fare un lungo respiro, calibrare le idee e i pensieri. Scontato, dirà il lettore già sonnecchiante per le prime, vaghe, digressioni di questo articolo.
Eppure, pare, quasi sempre più spesso, che chi si accinge alla scrittura per fini giornalistici abbia, ultimamente, dimenticato non solo il primo respiro, ingoiato dalla frenesia della notizia contemporanea, dalla quantità che annienta la qualità e da una vena, purtroppo non impercettibile, di superficialità.
Non solo, dicevo, il lungo respiro, ma anche il resto: dalla confusione delle idee nasce e si insinua nelle pieghe delle righe anche un vuoto, colmabile con la ben antica “deontologia”, che dovrebbe evitare inutili uscite, articoli di fumo o, peggio ancora, il “sentito dire”, il “si vocifera”, quasi che il controllo della veridicità delle informazioni ricevute sia una perdita di tempo (riconducibile, per quanto lapalissiano) al discorso citato poc’anzi.
Non solo, ma il rischio concreto è il passare il confine sottilissimo che divide l’informazione dalla calunnia, facendo prevalere sentimenti personali e opinioni – più o meno condivisibili ma ugualmente non richieste - al dato mero e incontrovertibile.
Cosa ne ricava, da questa dinamica, il lettore? Indignazione, anche facile, un’opinione bella che pronta e già confezionata, pronta per essere degustata dalla mente e, soprattutto, dalla pancia. Uno degli slogan più triturati e riproposti degli ultimi anni è sicuramente quello che vede una certa parte politica essere accusata di parlare proprio “alla pancia” delle persone. Ma quando lo fa un o una professionista dell’informazione non è, forse, lo stesso principio?
È necessaria, a mio modesto avviso, una riflessione dal profondo, che parta dal singolo professionista per coinvolgere l’intero settore. Di certe inutilità ne sono piene le colonne dei quotidiani, le immagini alla televisione e i siti web online. Ricordo con piacere, ma anche con un gran tocco di responsabilità, quando il buon don Renzo Boscarol, di certo non l’ultimo arrivato tra gli iscritti all’ordine dei giornalisti, mi apostrofò con “professore”: non ritenendomi all’altezza risposti che non lo ero. “Chiunque scrive è un professore”, ribadì con un sorriso che lasciava intendere una miriade di pensieri. Ma, fra tutti, sicuramente quello cardine: la responsabilità di un comunicator che sta soprattutto nell’onestà intellettuale che egli pone nel lavoro e nel dovere nei confronti del lettore. Che sicuramente non sarà interessato ai lavori privati della canonica, quanto più del programma pastorale da attuarsi, o non la scappatella del consigliere comunale, finché nell’ambito privato, quanto, forse, della sua attività all’interno dell’assise pubblica.
Rimarrà, questa, una “vox clamantis in deserto”, sicuramente derisa per la giovane età dello scrivente. Ma quando si sente la necessità morale di intervenire, la penna sa come muoversi quasi indipendente. A buon intenditor, poche parole.
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