L’INTERVISTA
La criminologa Bruzzone e la trappola dell’amore: «Relazioni sane e non soffocate dalla dipendenza»

Già sold out l’Auditorium della Cultura di Gorizia. La conferenza si inserisce nella rassegna AlienAzioni. Le nostre domande.
Criminologa, psicologa forense e scrittrice, Roberta Bruzzone sarà ospite nella serata di lunedì 24 febbraio all’Auditorium della Cultura Friulana di Gorizia nell’ambito del settimo Festival “AlienAzioni”. Un incontro durante il quale l’opinionista interverrà per riflettere sulla tematica delle relazioni tossiche e dell’amore criminale. Insieme all’autrice abbiamo approfondito alcuni aspetti che saranno affrontati a partire dalle 20.30 durante la conferenza dal titolo “Quando un amore diventa una trappola mortale”, che ha già registrato il sold out.
Dopo il caso Cecchettin, la tragedia più terribile in cui l’Italia si è risvegliata è stata quella di Aurora Tila, la più giovane vittima di femminicidio. Si può morire a tredici anni per mano di un coetaneo? Che ruolo educativo spetta, alla famiglia, e quale alla scuola?
«Non è tanto un problema educativo, si può morire anche prima, non c’è nessun limite sociale né geografico. La problematica non è relativa all’età, ma alla dinamica relazionale, e soprattutto alla personalità del soggetto in campo, in primis da parte del carnefice. Se la storia è con un soggetto totalmente disregolato, con un nucleo familiare disfunzionale - oltre che improntato in un ambito educativo in cui gli uomini hanno il potere assoluto e le donne vivono in queste gabbie senza poter decidere da sé - si può morire a tredici anni, ma anche prima. La famiglia “deve” fare qualche cosa. Infatti, il più grosso latitante in questa vicenda è proprio l’ambito familiare. Le ragazze mi pare abbiano una storia familiare piuttosto complessa, articolata e abbastanza compromessa».
«Non sono stupita che Aurora abbia incontrato una personalità profondamente malevola e senza remora a comportarsi in maniera violenta e aggressiva, perché evidentemente questa è la modalità che è stata corroborata e importata nel perimetro familiare. Lui è cresciuto così, ha capito che funziona in questo modo, e quando è entrato nella relazione affettiva con la ragazzina ha applicato questi schemi. Dal canto suo, la bambina era parte di una famiglia con problemi di affettività ed era affidata ai servizi sociali. Lei stessa si accorge che le modalità del ragazzino sono malevole e pericolose, ma non riesce a uscirne in maniera adeguata perché lui non glielo consente. Come sempre accade in queste situazioni, il soggetto alterna momenti di idealizzazione – complimenti, promesse d’amore o richieste di perdono - che vanno a riattivare il circuito neurobiologico della dipendenza nella vittima».
«Questa fa un passo indietro e perdona, e a quel punto, perdonando, autorizza a fare peggio la volta successiva: quello che si è verificato in questo caso. Succede in tantissime altre versioni, compreso fra adulti. Invece, pensare che la scuola possa riparare il male delle famiglie inadeguate è una speculazione. Non è peraltro il compito della scuola, che fa altro. Certamente, può fornire strumenti, per potenziare e far maturare la capacità critica. Ma se alla base c’è una personalità disturbata, la scuola non è una clinica psichiatrica. Non è neanche giusto che ci si aspetti questo. Con questo tipo di personalità l’istituzione scolastica alza bandiera bianca, non ha gli strumenti per poter agire».
Molte donne vivono con un sentimento di vergogna e senso di colpa le violenze subìte. Sta alla donna, trovare in se stessa la forza di autodeterminazione, oppure è anche la società, che deve farsene carico?
«La vergogna e la colpa fanno parte di un processo manipolatorio che s’instaura molto prima della violenza fisica. Prima, la vittima viene annientata dal punto di vista psicologico, portata a sentirsi inadeguata e colpevole per le punizioni che riceve. Un tipo di condizione difficilissima da superare per la vittima, perché è all’interno di un perimetro di dipendenza psicologica e biochimica. Per le donne, determinarsi alla denuncia è veramente complesso in uno scenario psicologico così articolato. Ecco perché la società, e per società intendo tutte le persone che vivono nel perimetro relazionale della vittima, deve mettere in campo il suo supporto. Perché una vittima sola in questo tipo di contesto non avrà mai la forza di denunciare. Tant’è vero, si stima che solo due donne su dieci che subiscono maltrattamenti prendano la decisione di denunciare chi le ha maltrattate. Significa che abbiamo otto donne su dieci che agiscono in un perimetro di sostanziale assenza di richiesta d’aiuto.
Le autorità sono realmente in grado di tutelare chi ha subìto violenza? Celeste Palmieri aveva denunciato ripetutamente l’uomo dal quale si stava separando, eppure è stata freddata con le borse della spesa.
«È una bella domanda. Alcune volte sì, perché le risorse in campo dei professionisti che sostengono queste situazioni sono adeguate e riescono a cogliere la pericolosità di certi indicatori, altre volte no. Dipende molto dalla preparazione degli operatori di polizia e carabinieri, e dai magistrati che prendono in carico le vicende. Anche fra gli operatori il fattore umano è ancora un parametro, purtroppo. Mi piacerebbe dirle che ovunque vada una donna, in Italia, possa ricevere la medesima accoglienza, preparazione e comprensione, ma temo che non le direi la verità».
Sei autrice di diversi testi, fra cui “Il lato oscuro dei social media. Nuovi scenari di rischio, nuovi predatori, nuove strategie di tutela”. Cosa nascondono, i social, e come possiamo evitare le insidie?
«Nascondono la parte oscura di quel che si è visto negli esseri umani. Anzi, direi che i social media, più che oscurarla, quella parte la mettono in risalto. In questo senso, sono un utilissimo strumento di valutazione: dimmi che profilo hai e ti dirò chi sei. Sotto questo aspetto, dobbiamo imparare anche a decodificare il profilo personologico e il tipo di utilizzo che un soggetto fa dei social media, perché possono essere degli indicatori utili per capire se hai davanti qualcuno che non ha risolto delle problematiche importanti».
Chi è veramente l’Unabomber friulano? Nel 2022 la Procura di Trieste decide di riaprire le indagini. Che idea ti sei fatta?
«Credo che, conoscendo bene il caso, l’Unabomber friulano sia fra le persone che sono state indagate. Non mi chieda di andare oltre a questo. Credo che l’inchiesta sia arrivata molto vicina.
Fra i diversi delitti ti sei occupata anche di Perugia e Garlasco. Nel primo caso non è ancora chiara la dinamica, mentre per il delitto Poggi è stato condannato Stasi, che continua a dichiararsi innocente ed esce dal carcere di Bollate per recarsi al lavoro.
Continuerà a farlo perché il suo aspetto personologico è improntato da tratti narcisistici; quindi, che possa assumersi la responsabilità di un gesto così terribile, lo escludo. La dichiarazione d’innocenza e l’ammissione di colpa non sono uno strumento per confutare la colpevolezza».
Quanto vale, la vita di una donna?
«Per alcuni uomini molto poco».
C’è una consapevolezza maggiore, oppure la donna resta ancorata al patriarcato?
«C’è una consapevolezza maggiore, ma non è sufficiente».
È ancora soggiogata al maschio?
«Totalmente sì. Del resto, ancora oggi, dal punto di vista educativo, culturale e valoriale, l’impronta patriarcale è fortemente presente. Sto per uscire con un altro libro per De Agostini, che s’intitola “Patriarcato criminale”, in cui racconto tre storie, oltre a spiegare perché – a mio modo di vedere – la matrice patriarcale ancora oggi sia l’equazione della parte più importante della relazione, che porta alla violenza e all’omicidio. Una lunga riflessione, di cui mi sto occupando da anni. E poi ci sono tre storie: Saman Abbas, Giulia Cechettin e Maria Chindamo. Storie recenti fortemente improntate da quella radice».
«Chi ancora sostiene che il patriarcato non esiste, che le donne possono vivere in una condizione di libertà e di autonomia senza residuali sensi di colpa, nella migliore delle ipotesi è un illuso, nella peggiore è in malafede. Ce l’abbiamo davanti agli occhi, quanto la cultura patriarcale incomba nella vita delle donne, ma anche degli uomini. Molti uomini uccidono solo perché, se dal punto di vista patriarcale si perde il controllo della propria femmina, si è “meno” maschi. Anche all’interno di sistemi sociali e culturali privilegiati, perché è qualcosa che apprendiamo da un’epoca assai precoce».
Quand’è che l’amore non sarà più una trappola mortale?
«Quando inizieremo a insegnare alle donne e agli uomini che possono vivere tranquillamente in autonomia senza bisogno necessariamente di essere l’uno l’appendice dell’altra».
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