Caso 41bis, l'ex bandito Antonio Mancini a Gorizia: «Non sono un pentito»

Caso 41bis, l'ex bandito Antonio Mancini a Gorizia: «Non sono un pentito»

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Caso 41bis, l'ex bandito Antonio Mancini a Gorizia: «Non sono un pentito»

Di Timothy Dissegna • Pubblicato il 02 Apr 2023
Copertina per Caso 41bis, l'ex bandito Antonio Mancini a Gorizia: «Non sono un pentito»

L'ex membro della Banda della Magliana ospite dell'associazione Heimat: «Io ho parlato dopo 11 anni di carcere».

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È un giudizio netto e contrario, quello che Antonio Mancini (nella foto, al centro) dà sul regime carcerario del 41bis: “Una fabbrica di pentiti”. L’ex componente della Banda della Magliana, oggi 75nenne e noto con il soprannome di Accattone dall’omonimo film di Pasolini, ha raccontato ieri sera a Gorizia la propria esperienza dietro le sbarre, ospite dell’associazione Heimat in via Bombi. Insieme a lui, l’avvocato Paola Ghirardelli per parlare delle origini del sistema nato nel 1986 con la Legge Gozzini per contrastare inizialmente le rivolte nei penitenziari.

Solo negli anni Novanta il 41bis sarà associato indelebilmente alla lotta alla mafia, arrivando fino a oggi con il caso Cospito, leader anarchico impegnato nello sciopero della fame per essere liberato. A tracciarne la cronologia è stata la stessa legale, ricordando come “l’intento principale fosse impedire che le persone legate a organizzazioni mafiose e terroristiche non dialogassero con l’esterno”. La soluzione adottata però, è “un’idea illiberale, contrastando inizialmente con i valori costituzione e della comunità europea”.

Nonostante la stessa Consulta e la Corte europea per i diritti dell’uomo non abbiano mai dichiarato illegittimo questo provvedimento, l’avvocato non ha risparmiato critiche alla misura. A oggi, su 56mila detenuti totali, sono 749 quelli al carcere di massima sicurezza, di cui quattro terroristi - incluso Alfredo Cospito, arrivato lì nel 2022 per decisione dell’allora ministro della giustizia Marta Cartabia - e i restanti legati a organizzazioni mafiose. “L’unico caso in cui si può evitare di entrarci è se la persona collabora” ha rilevato.

Una soluzione, questa, che non piace all’ex bandito, che prima della nascita del 41bis ha vissuto diverse realtà di detenzione. “Noi avevamo contatti con i sottosegretari per chiedere dove essere mandati - così Mancini -. Aborro la parola pentito, io ho fatto 11 anni di carcere e ho cambiato vita. Oggi sono un collaboratore di giustizia, era l’unica soluzione per uscire dal giro altrimenti sarei dovuto rimanere sempre a disposizione degli amici nella banda”. Le sue prime esperienze sono state con l’allora Articolo 90, richiesto dal generale Dalla Chiesa.

Era il 1978, durante i giorni del sequestro Moro. “Fui tra i primi a entrare in quelle carceri, passando dall’Asinara, Pianosa e Trani”. In quei contesti, ha ricordato le “continue pressioni e botte” da parte delle guardie, in una convivenza dietro le sbarre insieme a camorristi e brigadisti. Per l’ex criminale, uscito di galera nel 1992 iniziando a collaborare due anni dopo, tutto ciò comunque non influisce sul pentimento dei veri boss: “Si pentono quelli che sono in fondo, gli altri stanno bene. Brusca era solo un soldatino, Riina era il boss con qualcuno sopra di lui”.

Mancini oggi vive a Jesi, dove ha lavorato con i disabili grazie all’aiuto di un commissario di polizia, com’è lui stesso a raccontare. I suoi racconti sono diventati anche un libro, "Con il sangue agli occhi", scritto a quattro mano con Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto? Su Rai3. “Ci siamo conosciuti durante l’inchiesta sul caso Orlandi - ha ricordato la stessa giornalista, intervenuta telefonicamente - dopo che era arrivata in diretta la telefonata sulla tomba di Enrico de Pedis”, ritrovato sepolto nella basilica di Sant’Apollinare a Roma.

“Sul 41bis lo Stato non deve fare il carnefice - ha quindi replicato Sciarelli -, bisogna trovare il modo in carcere di dare una vita nuova a chi ha fatto errori gravi. La solitudine non aiuta ad andare avanti”. La decisione di Mancini di parlare con i giudici è quindi arrivata dopo aver scontato la pena: “Non volevo più quella vita, vengono massacrate le famiglie. Mia madre si doveva spogliare a 70 anni per venirmi a incontrare”. Quindi una considerazione: “Da ragazzo volevo studiare, quando sono finito in riformatorio a 14 anni non me l’hanno permesso”.

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