Caporetto e le radici del fascismo, Alessandro Barbero incanta èStoria

Caporetto e le radici del fascismo, Barbero incanta èStoria

la lectio

Caporetto e le radici del fascismo, Barbero incanta èStoria

Di Lisa Duso • Pubblicato il 29 Mag 2022
Copertina per Caporetto e le radici del fascismo, Barbero incanta èStoria

Applausi e grande folla per lo storico, il legame tra la disfatta e l'ascesa dell'ideologia.

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È arrivato ieri ai giardini di Gorizia uno degli ospiti più attesi della diciottesima edizione del festival èStoria: lo storico Alessandro Barbero, accolto da diverse centinaia di spettatori, di cui la gran parte in piedi accalcati attorno al tendone Erodoto per poterlo anche lontanamente scrutare. Ma dopo l’esaltazione, le grida e gli applausi iniziali è calato il silenzio di un pubblico che nemmeno la pioggia è riuscita a far spostare dai propri posti. Così l’affermato accademico ha tenuto la sua lectio magistralis parlando di come la battaglia di Caporetto sia stata un prodromo di quella che sarà la marcia su Roma, nella quale già si possono intravedere i sintomi di un’Italia che già molti al tempo definivano malata.

Un momento scioccante per il Bel Paese che ha dovuto affrontare una profonda frattura interna: tra chi Caporetto l’aveva combattuta e, logorato dalla guerra, pensava di aver finalmente visto la strada verso la pace, e chi l’aveva vista da fuori e, saturo di propaganda, vedeva nei soldati del fronte la causa della disfatta. Il comandante Cadorna, per evitare che le colpe ricadessero sul suo mal operato, si è adoperato nell’immediato per far uscire un bollettino, in cui era deciso a spiegare cosa fosse successo: la colpa, a suo dire, dell’ignominiosa seconda armata del generale Luigi Capello, che vigliaccamente senza combattere si è arresa la nemico. Inutili i tentativi di non far uscire quel bollettino, che già circolava a Roma e che fu così reso pubblico oltre i confini della Penisola.

“Un aspetto dell’Italia in guerra che prefigura il fascismo è la tendenza all’oratoria stentorea, stonfa, virile, un eccesso di grafia retorica che affascina”, segue l’analisi di Barbero. Il linguaggio sfarzoso, che associamo ai discorsi di Mussolini, come le parole che riecheggiarono in quel famoso 10 giugno del 1940 dal balcone di Palazzo Venezia, era già largamente impiegato dai generali e ufficiali nei loro discorsi ai militari durante la guerra. Una retorica fine a sé stessa, ma che dava l’idea che, se le parole del discorso fossero state eloquenti, egualmente formidabili sarebbero state le azioni da esse derivate.

Ognuno necessitava poi dei propri capri espiatori, e così iniziavano le accuse indiscriminate: i generali accusavano l’esercito traditore, i militari davano dei corrotti ai generali, e non mancava chi invece puntava il dito contro politici. I generali, che ritenevano la guerra sacra, erano sconvolti dal vedere i soldati felici di poterne uscire, disgustati dal vederli fuggire di fronte al nemico e accettare passivamente la sconfitta. Dalle più disparate fonti riportate dallo storico si evince come Cadorna – e non lui solo - fosse convinto della presenza permeata del socialismo tra gli uomini del fronte: paragonando la disfatta di Caporetto ad uno “sciopero dei soldati” venivano percepite delle vicinanze alla rivoluzione che in quello stesso novembre (ottobre nel nostro calendario) stava sconvolgendo la Russia.

E fu così che un Paese vincitore, anche se di una vittoria azzoppata, uscì dalla guerra con un animo sconfitto, con un dissenso dilagante verso la classe politica che non era riuscita a portare a casa le terre promesse, una popolazione che mancava di patriottismo e che doveva essere - secondo i politici - addomesticata, una violenza imperante che troverà forma nello squadrismo. Come si legge in un estratto di una lettera di Cadorna al figlio Raffaele, in quel momento l’Italia non era che un edificio dalle fragili fondamenta, a cui sarebbe bastato un lieve terremoto per crollare.

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