L'evento
Berlinguer fa tornare al cinema: tutto esaurito al Kinemax di Gorizia
Incontro-dibattito proseguito fino a tarda serata con il regista Andrea Segre. «Pellicola tra privato e politica».
Una volta nessuno t’insegnava a nuotare. Ti gettavano in acqua, annaspavi, ed eri costretto a imparare per non annegare. Così racconta Enrico Berlinguer alle figlie, mentre trascorre qualche momento di serenità a Stintino. Ha registrato il tutto esaurito la proiezione serale di “Berlinguer - La grande ambizione” in cartellone al Kinemax, preceduta e seguita dall’incontro con il regista fino a tarda serata. Un lavoro iniziato quattro anni prima per raccontare quel pezzo d’Italia che contava su dodici milioni di voti, 6750 sezioni e 3800 feste dell’unità. «Ne ho parlato subito con Elio Germano – racconta il regista – Non mi sono detto “andrà bene”, ma “proviamoci”».
Con il sostegno di Rai Cinema il progetto ha comportato mesi di studio - coinvolgendo storici e una settantina di testimoni - oltre che approfondimenti presso l’Istituto Gramsci, dove sono conservati verbali di partito e i manoscritti di Berlinguer. Girato in nove settimane fra Sofia, Roma e Stintino, il film ha impegnato una cinquantina di attori per un’attività affrontata con «cautela e forte senso di responsabilità», in fluida interconnessione fra privato e politica. Con una sceneggiatura scritta a quattro mani con Marco Pettenello – uno dei giurati del premio Amidei - Segre rincorre la “grande ambizione” cui allude Antonio Gramsci, quella «indissolubile dal bene collettivo». Partendo dal Colpo di Stato in Cile che portò alla caduta di Allende, Berlinguer/Germano dialoga con i bulgari ribadendo la propria contrarietà a ogni intervento armato. «Siamo convinti che rafforzare la democrazia sia un sistema per evitarlo», rimarca contrapponendosi all’ideologia sovietica. Così che, mentre viaggia sulla Čajka Gaz 13 B assieme al numero due del regime Boris Velchev, un camion carico di pietre colpisce l’auto, uccidendo sul colpo l’interprete. La sequenza successiva ci catapulta nell’interno romano di Casa Berlinguer dove la famiglia attende ignara.
«Maria (Giada Fortini), devi fare i piatti – esordisce la moglie Letizia (Elena Radonicich) – Ieri li ha fatti Bianca (Alice Airoldi)». Una normalità che si interseca con la sfera pubblica senza continuità di sorta, dove la piccola Laura scarabocchia il quaderno della sorella dopo che Enrico è rientrato dall’attentato a Sofia. Sognando una via democratica al socialismo, Berlinguer apre al compromesso storico con Aldo Moro poco prima del rapimento. Germano si batte contro l’abrogazione della legge sul divorzio con un marcato accento sardo, mentre Nilde Iotti (Fabrizia Sacchi) rivendica una famiglia fondata sul sentimento, dove la società appare «più avanti». Diciannove milioni di italiani che votano contro, dimostrando come la ricerca d’intese più larghe con le forze popolari e antifasciste fosse ancora possibile. Mentre Ingrao (Francesco Acquaroli) riflette sull’utilità della sconfitta di Fanfani, un colpo di scena annuncia l’attentato in piazza della Loggia a Brescia.
«Non si può essere sempre sicuri che la democrazia regga», commenta Terracini (Stefano Abbati), anticipando le immagini di repertorio in bianco e nero dove compaiono le bare in primo piano. La piccola Laura disegna “un grigio funzionario”, ed ecco nuovamente la storia familiare intersecarsi alla Storia sociale. Un’Italia che applaude e scende in piazza per le nuove elezioni, contagiata al grido «bandiera rossa trionferà». Dopo la parentesi di svago a Stintino, Germano si ritrova ai comizi per evidenziare l’importanza dei rapporti «fondati sulla solidarietà, di cui la gente ha sete».
Di fronte alla crisi del capitalismo dove i valori sono diventati disvalori, Enrico spiega la necessità di fuoriuscire dalla logica di mercato. Ribadendo anche al XXV Congresso dei comunisti a Mosca la propria volontà di costruire una società socialista «nel rispetto di tutte le libertà individuali e collettive» per slegarsi dalla logica sovietica. Alle immagini di repertorio che ci restituiscono un lucido Gianni Agnelli, s’interpongono quelle della finzione filmica con le elezioni anticipate, dove Germano si affaccia al balcone incitato dalla folla. «Passiamo a rappresentare un terzo dell’elettorato – esordisce - Cioè un elettore su tre vota per il Partito comunista». Ed ecco Andreotti (Paolo Pierobon) e Moro (Roberto Citran) camminare in silenzio fianco a fianco lungo i corridoi di palazzo, inquieti per la vittoria. È il dodici marzo del 1977, quando il figlio Marco rientra a casa dopo manifestazioni e scontri di piazza. «Non capisco da che parte stai, papà», ribatte alle parole del padre, che poco più tardi si accorda con Moro per far cadere il governo Andreotti. Una luna immersa nella foschia e i versi della canzone di Bertoli “Eppure soffia” annunciano gli eventi seguenti e il rapimento di Moro a opera delle Brigate Rosse. La macchina da presa riprende il cielo, i palazzi in fuga e l’immensità dell’azzurro, mentre fuori campo Moro si domanda esterrefatto: «Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte, in nome di una presunta ragion di Stato?». A chiudere la lunga epopea saranno le parole di Enrico, che nel rivolgersi in una lettera a Letizia chiede perdono per «tutto quello che non c’è stato», fino a cedere il passo al malore fatale.
«Hai riportato la gente al cinema, con Berlinguer», osserva il direttore Giuseppe Longo. «È un pezzo di storia – commenta Segre – Io e Pettenello abbiamo sdoganato il vissuto collettivo di tante famiglie italiane. Ho sempre pensato che il cinema avesse questo rapporto, con la memoria. Perché non la celebra, non la fossilizza come fanno i musei: la sublima. E la meraviglia della sala cinematografica è il suo essere intergenerazionale. Il ritrovarti al fianco di chi quel momento l’ha vissuto». Riforme per le quali lottare, che rendevano viva la democrazia e dove la dimensione collettiva era rappresentata dalla consapevolezza di costruire una comunità. Una continua tensione creata dal contrappunto fra finzione e immagini d’archivio, cui anche i costumisti hanno dovuto adeguarsi. «Abbiamo percorso tre anni lavorando assieme ai figli di Berlinguer, passaggio per passaggio». Dando così voce a casalinghe e operai, e a quanti dedicavano il proprio tempo al sociale, senza remunerazione. Perché svincolare la propria soddisfazione dai meccanismi economici, in fondo, è la vera chiave per accedere alla felicità.
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