Un'arte di confine, permeabile e senza muri: le riflessioni di Cristina Collu al Festival Treccani

Un'arte di confine, permeabile e senza muri: le riflessioni di Cristina Collu al Festival Treccani

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Un'arte di confine, permeabile e senza muri: le riflessioni di Cristina Collu al Festival Treccani

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 11 Apr 2025
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Ieri, 10 aprile a Gorizia, la direttrice Fondazione Querini di Venezia ha esplorato il concetto di confine nell’arte.

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Nel buio della sala campeggia “La presa di Cristo” del Caravaggio. Ad avvolgerla non è l’oscurità, ma il cuore stesso del cosmo, dal quale la narrazione sembra nascere come in un Big Bang che illumini d’improvviso le tenebre. Si è svolto nella serata di ieri, giovedì 10 aprile – presso lo spazio espositivo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia – l’incontro nell’ambito dell’VIII edizione del Festival Treccani della lingua italiana.

«Vediamo una cornice solo quando non compie la sua funzione – spiega l’ospite Cristiana Collu, citando Jaques Derrida – e io poco prima della conferenza ho visto il Caravaggio, non la sua cornice». La storica dell’arte è direttrice della Fondazione Querini di Venezia, dopo aver diretto il MAN di Nuoro e il MART di Trento, oltre alla Galleria Borghese e alla Galleria nazionale d’arte moderna della capitale.

«Filo conduttore di questo festival è “le parole valgono” – introduce il presidente Alberto Bergamin – e chi meglio della Treccani può fornircene il significato e l’evoluzione?». Termini da soppesare e sezionare nella misura in cui «le parole sono pietre», come affermò Carlo Levi nell’omonima raccolta di viaggio. Mentre le mattinate del festival vengono dedicate alle scolaresche, i pomeriggi offrono spazi di riflessione per specialisti, in un secondo momento utilizzati per realizzare podcast reperibili sul sito delle due fondazioni.

«Il giocare con le parole “con-fine” rappresenta una strada da tracciare per 365 giorni – ha rimarcato l’assessore alla cultura Fabrizio Oreti – affinché queste iniziative possano ramificarsi in futuro». Dal suo canto il rappresentante del Gect Paolo Petiziol si è rammaricato innanzi alla «povertà di linguaggio in cui ci ritroviamo immersi». Ripercorrendo il processo evolutivo che dal “limes” conduce al “cum-fines”, Petiziol ha sottolineato come nelle nostre terre si andasse «da Gorizia a Leopoli senza passaporto». Un confine «che abbiamo imparato a conoscere e un po’ a odiare di recente», incastonato nel cuore di quell’Europa che oggi ha smarrito il suo senso.

L’indagine ruota intorno al tema del confine inteso come «linea di contatto, spazio di transizione e incontro in cui identità differenti si contaminano». Un termine che grazie alle vicende di Gorizia è stato ripensato dalla Treccani, la quale quest’anno festeggia il suo centenario. «È importante che il festival sia aperto ai giovani, perché il futuro della lingua è nelle loro mani», ha evidenziato la responsabile della casa editrice Giuditta Albanese, ricordando anche l’appuntamento di sabato 12 aprile. La serata al Kulturni racconterà il confine attraverso le parole di Paolo Rumiz e i suoni della Piccola Orchestra dei Popoli, i cui strumenti sono stati realizzati con i resti delle imbarcazioni dei migranti naufraghi in Mediterraneo.

«Mi sono chiesta se sono davvero la persona giusta, per una lezione sul confine», ha esordito Collu, natia della Sardegna. «La condizione d’isolana mi ha fatto ritrovare un’affinità», ha rivelato, focalizzandosi sul termine denotato come «soglia, spazio ambiguo in cui si realizza l’incontro e lo scontro». Un confine che «non è mai definitivo, può essere valicato, dissolto» in quanto viene interiorizzato per divenire «soglia mobile».

Linee che influenzano le strutture urbane tracciando spazi che separano e al contempo uniscono, come accade per la cornice con l’opera d’arte. «La cornice identifica un mondo soggetto soltanto a norme proprie», e così quella sottile linea di demarcazione «unisce in quanto separa». Su questa frontiera abita il poeta, che si fa «custode della soglia e ci consegna la nostra infinita differenza». Di qui la riflessione sulla tela del Caravaggio di recente esposta alla Carigo, dove la mano di San Giovanni – la cui chioma è fusa a quella di Cristo - appare tagliata per rinviare a uno spazio “altro” moltiplicandosi oltre la cornice. «Ciò che le culture hanno in comune è l’operazione di collegare e connettere», ribadisce la relatrice mostrando poi l’installazione “Underdog” di Liliana Moro (2004).

Dove con un’azione sospesa in un tempo immobile si assiste alla labilità del confine fra vincitori e vinti; una battaglia per la sopravvivenza che si riflette anche nei muri di Carlos Garaicoa con le opere di “Yo no quiero ver mas a mis vecinos” (2006). Muri che fra Israele e Palestina s’innalzano fino a otto metri d’altezza, sancendo la fine delle negoziazioni e ostacolando ogni tentativo di confronto. Contro i conflitti e a favore di una ricostruzione della memoria si colloca l’artista Maja Bajevic con “Green, green, grass of home” (2002).

Ma le immagini che maggiormente rendono l’idea della permeabilità dei confini sono quelle disponibili sul sito worldmapper.org, una collezione di cartogrammi in cui i territori vengono mostrati in relazione alle risorse disponibili o alle infrastrutture. «L’Africa quasi sparisce – prosegue – in un esercizio interessante per comprendere come i confini siano malleabili, duttili», precisa. Concludendo con i potenti versi del poeta persiano Jalal al Din Rumi, che nel XII secolo comprese la futilità di ogni guerra e la bellezza della resurrezione.

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