l'incontro
Aleksandar Hemon si racconta a Nova Gorica, «in America c'è più confronto»

Lo scrittore bosniaco naturalizzato americano ospite ieri nella biblioteca France Bevk con il suo ultimi libro, «la cultura non è monolitica o statica».
Non è goriziano né di Nova Gorica: eppure Aleksandar Hemon potrebbe diventare il perfetto sponsor per Go!2025. Bosniaco di nascita, americano d’adozione e d’elezione, Hemon è stato protagonista ieri sera della presentazione della traduzione slovena del suo libro “Tole ni zate/ Tutto questo non ti appartiene”, ospitata nell’affollata biblioteca France Bevk e condotta dal giornalista Ervin Hladnik Milharčič. La conversazione si è svolta in bosniaco, con traduzione simultanea in sloveno e italiano, e ha dato modo di entrare nell’universo multilinguistico e privo di barriere in cui vive Hemon, aspetto che costituisce un postulato imprescindibile per la Capitale europea della Cultura.
I primi limiti che vengono abbattuti dallo scrittore sono, nel libro di recente traduzione, quelli temporali, con un continuo rincorrersi di presente e futuro, dove il presente è quello di un ragazzino di dodici anni che vive a Sarajevo nella totale inconsapevolezza della guerra che l’avrebbe portato lontano da casa ma che, per il narratore onnisciente, è in realtà già avvenuta. I passaggi da un momento all’altro sono facilitati dalla disarticolazione del racconto in una serie di frammenti, perfetta trasposizione dei ricordi affiorati poco per volta nella mente di Hemon mentre stava lavorando a un altro romanzo.
Le barriere linguistiche sono invece quelle che suggeriscono alla critica di indicare lo scrittore come romanziere bosniaco o americano, grazie a una padronanza della lingua inglese acquisita a Sarajevo attraverso le canzoni che ascoltava da ragazzo e poi appresa sul campo una volta arrivato negli Stati Uniti. Non è stato un passaggio facile, problematico anche dal punto di vista emotivo, con i mille interrogativi su quanto potessero essere legittimi dei ricordi messi per iscritto in inglese ma appartenenti al periodo in cui la lingua d’uso dell’autore era il bosniaco.
Si spiega così il coesistere, in una stessa pagina del romanzo, di idiomi diversi, senza note a piè di pagina a fornire la traduzione cui si può giungere per assonanza o contestualizzando la situazione: e si tratta spesso di situazioni drammatiche al momento in cui sono accadute ma che, rivissute nel racconto di chi è sopravvissuto, possono anche essere riviste in modo comico. «Non è humor nero, semplicemente sopravvivere a una tragedia ti permette di ripensarci e trasformarla in commedia. È la vita» spiega con semplicità Hemon, più volte accostato dal suo interlocutore a Marcel Proust per il continuo rapporto con la memoria e il passato.
Nel caso dello scrittore francese, però, questo si palesa in ricordi innestati su una continuità di fondo, priva di sradicamenti dalla terra e dalla condizione sociale d’origine. La consapevolezza di provenire da un contesto culturale effervescente, in cui ben prima della guerra lo scrittore percepiva la possibilità di una terza via rispetto alle ideologie fascista o comunista, e l’arrivo in un Paese dove si può trovare tutto e il contrario di tutto, in un’amalgama spesso difficile da decifrare, hanno reso Hemon lo scrittore internazionale apprezzato tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, rendendo parimenti importanti le due anime europea e americana dell’autore.
Con simpatica sincerità l’intervistatore, che già a Sarajevo aveva conosciuto Saša, ha raccontato di quando è stato invitato a intervistare un romanziere americano ritrovandosi poi inaspettatamente di fronte proprio Hemon che, a sua volta, ha ripercorso i momenti di imbarazzo vissuti a inizio carriera per l’ignoranza del sistema editoriale americano. L’interscambiabilità delle lingue è tornata nell’intervento di Stojan Pelko, responsabile di Go!2025, che ha proposto lo scrittore e i suoi romanzi come trailer per GO! 2025.
«A Nova Gorica, ha affermato Hemon, può essere più chiaro che altrove ma in realtà tutte le lingue sono maccheroniche, nascono cioè dall’incontro di più idiomi che vengono in contatto per le migrazioni delle persone. Ed è questo il bello della globalizzazione: la cultura non è monolitica o statica, richiede flusso di persone per formarsi, anche quando questo flusso è costituito da esuli o, come in passato, schiavi. In Europa è ancora forte il sentimento dell’identità nazionale, in America invece c’è un maggiore possibilità di confronto e contestazione, sintomo di una mentalità più aperta».
Foto Tibaldi
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