L'ultimo addio di Gorizia alla leggenda Gigi Lo Re, «voleva risvegliare la città dal sonno»

L'ultimo addio di Gorizia alla leggenda Gigi Lo Re, «voleva risvegliare la città dal sonno»

il funerale

L'ultimo addio di Gorizia alla leggenda Gigi Lo Re, «voleva risvegliare la città dal sonno»

Di Timothy Dissegna • Pubblicato il 18 Set 2024
Copertina per L'ultimo addio di Gorizia alla leggenda Gigi Lo Re, «voleva risvegliare la città dal sonno»

Oggi l'estremo saluto della città al celebre musicista, scomparso a 84 anni. Il ricordo di don Alberto Nadai: «I suoi ritmi erano quelli della natura».

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Gigi Lo Re aveva sognato quell’ultimo applauso in piazza Vittoria in una cornice diversa, con le bacchette in mano mentre era seduto sulla sua batteria. Alla fine, però, quell’estremo omaggio della sua Gorizia è arrivato per dirgli definitivamente addio e ringraziarlo per tutta la spensieratezza e l’arte che ha regalato attraverso la propria musica, mentre la canzone Sardar Twist si intrecciava con le campane a lutto. Questa mattina, la chiesa di Sant’Ignazio ha ospitato i funerali del grande artista, anima della band Le Tigri.

Una cerimonia che ha richiamato parenti, amici ma soprattutto tanti estimatori di quella vera leggenda della musica beat, andando oltre gli anni Sessante e Settanta per imprimersi nell’immaginario collettivo. Celebrata da don Nicola Ban, la messa ha visto il ricordo fatto da don Alberto De Nadai, amico dello stesso Lo Re con cui ha trascorso alcuni anni proprio in quella chiesa: uno come sacerdote, l’altro come sagrestano su spinta della famiglia. «Nel 1959/60 mi serviva messa, obbedendo malamente al padre (anche lui sagrestano, ndr)».

L’esordio nei locali doveva ancora arrivare, con quell’istrionico ragazzo che aveva già le idee chiare: «Vedeva la città che tanto amava come la bella addormentata nel bosco, ha così cercato di risvegliarla con il ritmo del Dio creatore: crescete, moltiplicatevi e custodite una terra. Usando lo strumento della batteria, ha richiamato alla vita nella città addormentata. Non so se lo sia ancora», ha aggiunto con ironia don Nadai, vedendo in quei ritmi musicali un legame a doppio filo con il messaggio cristiano ma soprattutto con l’amore per gli altri.

«I suoi ritmi - ancora il sacerdote - erano quelli della natura, quando le Tigri suonavano c’era tanta gioventù che li attorniava. Stavano lì per due o tre ore seguendo quei ritmi, quel rock, le improvvisazioni. Era la vita e voleva che la città si risvegliasse dal suo passato, aprendosi a un futuro di una nuova generazione». E anche se si trovò «davanti una cultura dominante che difendeva l’idea dell’uomo di successo competitivo, che vince i propri limiti altrimenti non vale nulla», Gigi è riuscito a mostrare la bellezza nella sua umanità.

Lo ha fatto «grazie a una rete di relazioni familiari e amicali che hanno sostenuto la sua fragilità, tramite la creazione di un nuovo Umanesimo. Siamo tutti vasi di creta e fragili». Così come in un gruppo musicale, anche nella vita le persone hanno bisogno di stare insieme e quei momenti di aggregazione che quelle canzoni riuscivano a creare diventavano linfa: «La debolezza è mancanza di potere mentre la fragilità è la caratteristica più tipica dell’uomo». Un tratto che Lo Re condivideva anche con la sua batteria tanto amata fin da giovanissimo.

Un amore mai spento, nemmeno dopo gli 80 anni con il sogno mai spento di suonare ancora una volta, che fosse in piazza Vittoria o al Teatro Verdi. Oggi, anche il suo strumento lo ha salutato con una rullata di tamburi, ai piedi dell’altare. «Ogni essere umano che nasce e che muore lascia qualcosa in eredità anche chi non ha nulla». Per il prete, si tratta della memoria e del perdono, «ossia il dono per l’altro, reciproco, di risanamento delle ferite che la vita ci ha inflitto, di ritrovata vicinanza nella debolezza dei tempi stanchi, di rinnovati affetti nel ricordo».

Le parole dell’omelia si susseguono in una poesia di profonda concretezza, davanti a occhi che si gonfiano sempre più di lacrime. Diventano colonna sonora di un saluto che la comunità sapeva ormai di dover fare, prima o poi, e non perché il compianto avesse già «un piede nella fossa», quanto «un piede nel primo gradino della scala del Paradiso, che conduce alla misericordia di Dio». Uscita dalla chiesa, la bara diretta al cimitero centrale ha suonato la sua ultima nota, quella degli applausi e del silenzio che hanno colorato di ricordi la città.

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