La difficoltà delle relazioni per l'uomo contemporaneo: a Gorizia il racconto di De Filippo

La difficoltà delle relazioni per l'uomo contemporaneo: a Gorizia il racconto di De Filippo

La narrazione

La difficoltà delle relazioni per l'uomo contemporaneo: a Gorizia il racconto di De Filippo

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 17 Gen 2025
Copertina per La difficoltà delle relazioni per l'uomo contemporaneo: a Gorizia il racconto di De Filippo

'La grande magia' ha aperto il 2025 per il Teatro Verdi. Uno spettacolo che fa smarrire spettatori e personaggi.

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Tutta la magia del teatro sta racchiusa dentro una scatola, giacché le mura del palcoscenico abbracciano il mondo intero, come ricorda Shakespeare nel monologo di “As you like it”. È andata in scena giovedì 16 dicembre sera la commedia a tinte fosche “La grande magia”, che Eduardo De Filippo scrisse e interpretò nel 1948 facendola confluire con “Filomena Marturano” e “Questi fantasmi” nella raccolta “Cantata dei giorni dispari”. Una tragicommedia che ha aperto al Verdi l’anno della Capitale della cultura con la prosa di Gabriele Russo, che prende in prestito dalla messa in scena del 1985 di Strehler l’idea di adoperare attori con inflessioni dialettali diverse. Utilizzando «come trampolino» il testo e la recitazione del grande Eduardo, il regista prova a «esplorare nuove prospettive» senza perdere di vista l’intento del drammaturgo partenopeo, mescolando realtà e finzione come secoli prima Pedro Calderón de la Barca nel dramma filosofico-teologico “La vita è sogno” (1635). Già nell’edizione televisiva per la Rai in cui De Filippo è il mago Pasquale “Otto” Marvuglia (qui interpretato da Michele Di Mauro) si percepisce tutto il livore di Calogero Di Spelta (Natalino Balasso). Un’oppressione che Calogero riversa sulla moglie Marta (Alice Spisa), costringendola ad allontanarsi con l’amante (Gennaro Di Biase) per complicità del mago.

L’incipit è scandito dalla voce narrante di Eduardo che ricorda il «coro di disapprovazione» seguito alla prima, con l’accusa di essere uscito dai canoni della propria tradizione. Il testo anticipava i tempi e non venne compreso dal pubblico degli anni Quaranta, quando l’abbandono del tetto coniugale da parte della donna suscitava scalpore e in Italia vigeva il delitto d’onore, abrogato solo nel 1981. Una drammaturgia in cui la figura scalcagnata di Pasquale lascia trasparire pietà e compassione per la condizione femminile, rinviando con il suo lascito a un’attualità di continui femminicidi. Nei giardini dell’hotel Metropole fa il suo altisonante ingresso Otto Marvuglia con il carrozzone carico di trucchi - sedie, gabbie, cappelli, scope – più somigliante a un venditore ambulante che a un professionista. Il ciarlatano litiga con la moglie Zaira (Sabrina Scuccimarra) e tira a campare per pagare l’affitto a fine mese.

Con un trucco d’avanspettacolo farà sparire Marta, incassando persino un assegno dal povero Calogero raggirato. Il quale di fronte all’evidenza preferisce credere alle parole del mago, stringendo a sé la scatola nella quale per atto di fede immagina di ritrovare sua moglie. Resisterà per quattro lunghi anni senza aprirla, conducendo una vita di illusioni nella speranza di riaverla a sé. Al pari di Orfeo che scende agli Inferi per riportare in vita Euridice - perdendola per sempre nel voltarsi a guardarla - così Calogero cede al desiderio di aprire la scatola nell’istante in cui ricompare per davvero la moglie pentita. E tuttavia, nella sua follia Calogero preferirà rinnegarla, cancellarla dalla propria esistenza, piuttosto che ammettere di essere «cornuto». Piccoli giochi innocenti, come i canarini in gabbia che «non sono niente»: ignari del proprio destino verranno schiacciati fra il fondo e il doppio fondo per lasciar credere che il gioco di prestidigitazione li abbia smaterializzati altrove. Anche la famiglia viene ridotta a «un giuoco», figure trasformate in «immagini di una memoria atavica» senz’alcuno spessore.

Mentre il «terzo occhio» di Marvuglia non fa che avviluppare attori e pubblico in questo illusorio labirinto di specchi dominato dalle luci di Pasquale Mari. Il pannello di velatino del fondale ha la funzione di mostrare o celare quanto accade nella mente di Calogero, manipolato dall’illusionista Otto. Un gioco al quale si presta la recitazione piatta di Balasso, che incarna magistralmente l’immagine del perdente incapace di rassegnarsi al tradimento. «E lucean le stelle», canticchia aggrappato alla sua scatola come un naufrago nella tempesta dei sentimenti, accompagnato dalle musiche di Antonio Della Ragione. In questo pirandelliano “Giuoco delle parti” Di Spelta oscilla fra follia e ironia, concedendo battute che rimandano al teatro dell’assurdo, come nel dialogo con il cameriere Fucecchia (Manuel Severino): «Gennarino, vorrei un’immagine di formaggio». «Questa mattina me lo sono mangiato, non ce n’è nemmeno un fotogramma. La fotografia del piatto di spaghetti v’è piaciuta? Allora sviluppatela bene!». A conclusione del suo lungo percorso, nel guardarsi allo specchio e notare i capelli grigi persino la morte gli apparirà «un giuoco». «Può darsi pure che mi sarà trasmessa l’immagine della morte – riflette – Avrò paura? Di che dovrei aver paura? Della conclusione di un giuoco!».

Se assistere a uno spettacolo comporta un atto di fede da parte del pubblico, chiamato a proiettare sul palco il proprio vissuto, sarà la stessa fede a spingere Calogero ad aprire la scatola, quintessenza di quella grande magia che è il teatro. «Io ho fede. Aprirò questa scatola», dichiara nel folle monologo mescolando consapevolezza e allucinazione. Mentre sta contando fino a tre verrà interrotto da Pasquale, che con uno straordinario colpo di scena gli riporta Marta, unica creatura reale di un “giuoco” condotto soltanto da uomini. «Nella mia vita c’è stato un altro uomo. E tu lo devi sapere, se vogliamo salvarci da questa illusione pazza», ammetterà Marta con schiettezza, mostrandosi più forte di quell’inconsistente universo maschile fatto di crepe e ombre. Ma Calogero proseguirà il suo gioco tenendo serrata a sé la scatola rimasta chiusa. «Chiusa! Non guardarci dentro. Tienila con te ben chiusa, e cammina. Il terzo occhio ti accompagna...e forse troverai il tesoro ai piedi dell’arcobaleno», conclude ormai prigioniero del suo mondo illusorio. 

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